Da noi in Italia è poco conosciuta, e di sicuro molti di quelli che sono finiti davanti al suo obiettivo sono molto più celebri di lei. Qualche nome: Dylan, Borges, Ginsberg — che tra l’altro fu suo amico intimo — e praticamente tutta la Beat Generation, da Lawrence Ferlinghetti a Peter Orlovsky, da Gary Snyder a Gregory Corso, oltre al pittore e fotografo Chuck Close, Steven Tyler degli Aerosmith, ma soprattutto tante, tantissime persone qualunque, quasi mai ritratte da sole ma in coppia, con amici, partner, famiglie, perché la solitudine spesso fa rima con tristezza e di tristezza, Elsa Dorfman, nelle sue foto non l’ha mai voluta.
Americana, classe 1937, nativa di Cambridge, nel Massachusetts, Dorfman a ventidue anni si trasferì a New York, dove venne assunta come segretaria in una piccola casa editrice che ruotava attorno alla scena beat e che le diede modo di conoscere Ginsberg e gli altri.
Dopo esser tornata a casa e aver cominciato a lavorare come insegnante, scoprì l’amore per la fotografia. Era il 1965 e da allora Elsa Dorfman ha realizzato quasi esclusivamente ritratti, che fin dagli anni ’80 ha iniziato a scattare per lo più con una rarissima, gigantesca, pesante Polaroid 20 x 24, prototipo realizzato negli anni ’70 in soli cinque esemplari, ciascuno pesante oltre un quintale e funzionante con lastre da appunto 20 x 24 pollici, equivalenti più o meno a 51 x 61 centimetri.
Cinquant’anni di carriera e di ritratti — trentacinque dei quali passati fianco a fianco al suo bestione 20 x 24 — raccontati dalla stessa Dorfman in un documentario intitolato The B-Side, girato dal pluripremiato filmmaker americano Errol Morris e in uscita il prossimo giugno, dopo esser già stato presentato (e aver ricevuto ottime critiche) in alcuni tra i più prestigiosi festival mondiali.