I magazine indipendenti non sono mai stati così amati, studiati, discussi.
Ci sono festival, conferenze, premi, workshop in tutto il mondo, rubriche di critica sui giornali, siti specializzati, miriadi di negozi online, bookshop dedicati, mostre-mercato, corner shop e temporary store durante le maggiori fiere (di design, di moda, d’arte); noi stessi, qui su Frizzifrizzi, abbiamo una rubrica, Issues, dedicata a questo.
E ovviamente ciò significa che se già il panorama attuale dell’editoria periodica autoprodotta, o comunque lontana dai grandi gruppi editoriali, è sterminato e quasi impossibile da “mappare” nella sua totalità (sebbene un sito come Magpile, basato sul crowdsourcing sta facendo un lavoro egregio), per il semplice effetto-imitazione tale panorama continuerà ad espandersi ulteriormente, nonostante il tasso di “mortalità” delle nuove riviste sia piuttosto alto e nonostante pure le enormi difficoltà per arrivare anche soltanto a un pareggio tra entrate e uscite (proprio riguardo a questo, qualche tempo fa ho scritto un pezzo su CheFare).
Perché è così che spesso vanno le cose: un prodotto culturale funziona, o comunque se ne parla molto, cominci a interessartene, ti appassioni, cominci a guardarti attorno, sfogli, scartabelli, fantastichi, credi di poter dare anche tu il tuo contributo, cominci a studiare la possibilità di entrare in quel mercato, valuti un milione di variabili ma poi, in conclusione, ti fai guidare più dall’istinto che dalla ragione e ti butti, talvolta riuscendo a coronare un sogno e a farlo in maniera sostenibile, più spesso ritrovandoti a che fare con un vero e proprio incubo, una sanguisuga per energie, serenità e conto in banca.
Ma se una “ricetta definitiva” per realizzare un magazine indipendente di successo non c’è—e ovviamente non possiamo essere tutti dei Tyler Brûle (Wallpaper* e Monocle), delle Penny Martin (The Gentlewoman), dei Nathan Williams (Kinfolk), degli Omar Sosa o dei Nacho Alegre (Apartamento) oppure, per citare l’esempio italiano più eclatante, dei Federico Sarica (Studio)—c’è comunque tutta una serie di problematiche di cui tener conto: in che nicchia andare a posizionarsi, che lettori si desidera avere, che tipo di contenuti produrre, come produrli, come “confezionarli” (e qui entra in gioco il design), quanto farli pagare, come e dove distribuire, puntare sulla pubblicità oppure no, e di che tipo, organizzare eventi di lancio, promuovere online, come strutturare il sito, offrire online quel che c’è su carta o meno…
Di questo, e molto altro, parla un libro come So You Want to Publish and Magazine?, che uscirà il prossimo agosto e che già dal titolo ha il sapore di una sfida, oltre a un doppio livello di lettura: se da una parte ti fa pensare a un amico che ti dà una pacca sulla spalla prima di riempirti di buoni consigli, dall’altra suona pure come qualcuno che ti prende per il bavero della giacca per riportarti alla realtà.
E l’autrice, Angharad Lewis, giornalista di Grafik e collaboratrice di un gran numero di testate, riesce proprio in questo doppio intento di incoraggiare/scoraggiare—la vera differenza, in questo caso, la fanno il lettore e la sua capacità di progettare in maniera razionale, senza lasciarsi andare a facili entusiasmi ma anche senza soccombere sotto a ondate di disfattismo preventivo.
L’importante, come in tutte le cose, e come traspare dalle interviste che accompagnano le varie sezioni del libro—realizzate con editori, designer, startupper, distributori, stampatori—è studiare bene prima di valutare anche soltanto la possibilità di buttarsi.