How to build a manifesto for the future of a festival: Santarcangelo 2015 e le quattro pubblicazioni che accompagnano l’evento

Come si costruisce un festival? E il manifesto — politico e culturale — che c’è dietro a un festival?
E poi: come si costruisce un pubblico? E come lo racconti un evento per sua natura effimero, che vive nel momento stesso in cui va in scena e si “dispiega” di fronte agli spettatori?

Chiunque abbia avuto la fortuna di partecipare alle riunioni che precedono o seguono la messa in opera di un festival sa benissimo che ciò a cui poi il pubblico assiste non che la proverbiale “punta dell’iceberg”, e non soltanto a livello di organizzazione ma anche e soprattutto di concetto, in special modo se l’evento in questione è uno di quelli che in tanti anni di attività non ha mai smesso di pigiare sul pedale della sperimentazione e del coraggio, come il Festival di Santarcangelo, giunto alla sua 45esima edizione, la quarta sotto la guida di Silvia Bottiroli, giovane direttrice artistica che quest’anno ha deciso di pubblicare un progetto editoriale in quattro numeri, tutti in duplice lingua italiano/inglese.

How to build a manifesto for the future of a festival — questo il nome — non è soltanto un “dietro le quinte” ma una vera e propria piattaforma culturale nata per suscitare domande, riflessioni e stimolare un dialogo che vada anche al di là del mondo del teatro.

Dopo aver ricevuto il primo numero ho raggiunto Silvia al telefono, per farmi spiegare il come, il perché, l’origine e il futuro del progetto.
Ne è nata una bella chiacchierata in cui si parla spesso di “tempo”, di “lavoro”, di “altro”.

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La rivista che ho sottomano è piena di interrogativi. Ma qual è stata la domanda che vi ha fatto decidere di mettervi al lavoro su un progetto del genere?

L’idea nasce da due riflessioni iniziali: una è la domanda che dà anche il titolo alla pubblicazione, e cioè chiedersi di come si pensa al futuro di un’istituzione artistica, di come la si comincia a cambiare, a mettere in movimento dall’interno, quest’istituzione.
Da lì ci siamo chiesti come immaginare un’idea di costruzione e di scrittura collettiva di un documento d’intenti, di un vero e proprio (so che è una parola forte ma ci piace pensare che si tratti di questo) Manifesto.

Se si parla di Manifesto significa che il festival si trova in una fase di profonda trasformazione.

Sì, l’ennesima della sua lunga storia. Siamo in una fase di ripensamento anche radicale: del concetto stesso di festival, di come questo “viva” in un territorio ma anche che, contemporaneamente, in una dimensione internazionale, sia nel tempo effettivo del festival, sia nel tempo lungo dell’anno.

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Il Tempo, per l’appunto. Che è la parola chiave di questo primo volume.

Il secondo e il terzo numero saranno sul Linguaggio e sulla Presa di Parola e usciranno tra adesso e luglio. Mentre il quarto sarà dedicato al Futuro e abbiamo deciso di affidarlo ad altri, ai 12 partecipanti e ai 2 curatori di una scuola che ospitiamo durante il festival, lanciando in qualche modo una sorta di “pietra nello stagno”.

Che è il bell’interrogativo in cui ti immergi sfogliando il poster che accompagna la rivista. Io dopo averlo aperto, dopo essermi immerso (perché è stato progettato in modo da entrarci dentro col gli occhi e con la mente), mi sono ritrovato a pensarci su per un po’.

Abbiamo pensato di aprire una riflessione, di aprirla con un gesto.

Parlami del pubblico. O, meglio, della costruzione di un pubblico consapevole, che è uno degli scopi della pubblicazione.

L’altra questione fondamentale infatti è proprio il lavoro con lo spettatore.
La domanda di partenza è stata: “come dare conto di tutta una parte di lavoro invisibile di un festival?”. Che è sia ciò che viene prima ma anche ciò che viene dopo.
Ci siamo cimentati con l’idea dell’atlante, o dell’erbario, mettendo insieme immagini e testi che abbiamo frequentato e navigato in questi ultimi mesi o cercandone altri su cui soffermarci, per poi condividere questo percorso di navigazione con lo spettatore fuori dalla temporalità stretta del festival, che dura dieci giorni e che quindi è per natura effimero, soprattutto un festival come quello di Santarcangelo che si occupa di arti dal vivo.

Scripta manent, invece.

Sì, la scelta di pubblicare su carta è una sorta di desiderio di eternità, che avrà un suo tempo e una sua geografia capace di trascendere il festival e noi stessi.

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Le pubblicazioni verranno distribuite durante i 10 giorni dell’evento?

Sì ma non soltanto durante il festival. Una serie di persone, tra cui tu, hanno già cominciato a ricevere il primo numero e poi riceverà gli altri. E poi stiamo aspettando che ci assegnino un codice ISBN per poter partire con la distribuzione in un piccolo circuito internazionale fatto di bookshop di musei e qualche libreria specializzata.

Questo progetto — mi riferisco alla pubblicazione — pensi che andrà avanti anche per le prossime edizioni?

[Sospirando, ndr] è una domanda che ci stiamo facendo ma immagino che cambierebbe molto la sua temporalità. Quest’anno siamo stati piuttosto folli e abbiamo fatto tutto in poco tempo (lo vedrai anche dal numero di refusi!). Sentivamo una sorta di urgenza. Ma per l’anno prossimo stiamo cercando di trovare un modo per far “depositare” questo lavoro e magari fargli prendere un tempo di riflessione diverso. Quindi credo che potrebbe esserci magari una sola pubblicazione, invece di quattro, ma più meditata.

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L’urgenza si percepisce, sfogliando la rivista. Realizzata in sole tre persone, giusto?

Sì, siamo io, Marzia Dalfini, che lavorava a Strane Dizioni e che da quest’anno è la grafica del festival, e Giulia Polenta, che è con noi dallo scorso anno, è giovanissima, viene dalla Naba, ha una formazione in arti visive e si è da poco laureata con una bellissima ricerca sull’archivio, quindi l’abbiamo invitata a seguire tutta la parte editoriale per portare dentro al progetto il suo sguardo, che è “altro” rispetto al mio, più strettamente legato al teatro.

Che tipo di ricerca avete fatto?

Siamo partite dall’incontro che c’è stato l’anno scorso a fine festival. E ci siamo incrociate, noi tre, cercando di procedere insieme, con una parte di ricerca che non si vede nella pubblicazione, relativa a “case studies” di altre esperienze — come ad esempio alcune mostre — che hanno puntato sul tempo, sulla questione del futuro, dell’effimero.
Poi abbiamo stilato una bibliografia minima, che abbiamo riportato anche nella rivista.
E infine abbiamo tracciato dei sentieri all’interno del paesaggio di incontri che ci sono stati, di testi che abbiamo trovato, di letture fatte, di materiali che potessero creare dei “campi di tensione” l’uno con l’altro in modo da produrre ulteriore pensieri, stimoli.
Ovviamente abbiamo scartato molto, sempre in base al concetto di atlante dove alla fine sono più importanti sono gli “spazi vuoti” rispetto agli spazi pieni.

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Oltre ai dialoghi ho visto che ci sono anche testi tratti da libri.

Abbiamo inserito dei testi secondo noi fondamentali ma che non sono stati ancora tradotti in italiano. Ad esempio sul prossimo numero uscirà un estratto de Lo spettatore emancipato di Jacques Rancière, che è un libro che ha ormai una decina d’anni e che nelle edizioni francese e inglese è stato un testo fondamentale per gran parte della scena artistica di questi anni.
In questo caso ci sembrava importante il “gesto” stesso della traduzione, sollevando in questo modo la questione della necessità di appropriarsi di alcuni testi, di metterli in relazione a un contesto, anche perché molti dei testi sulla scena contemporanea non vengono pubblicati in italiano.

Che ti aspetti dal pubblico, cioè da chi andrà a leggere questa pubblicazione?

Penso che verrà letta soprattutto da un pubblico di persone già interessate a questo tipo di riflessione.
Ovviamente l’immagine del lancio del sasso nello stagno è un po’ l’immagine che ci guida anche in questo senso: un gesto che solleciti anche ulteriori discussioni, che possa riverberare anche in contesti diversi e lasci pure ad altri la questione su come produciamo e condividiamo conoscenza, attraverso un festival ma anche attraverso altri strumenti.
Tra l’altro quest’anno anche il Kunsten Festival di Bruxelles ha prodotto una pubblicazione importante e in qualche modo legata a un concetto simile: quindi forse è una cosa che è nell’aria, una voglia di prendere la parola e presentare un percorso possibile.

Quello che ho pensato, leggendo il primo numero, è che possa diventare una piattaforma che non si esaurisca col festival.

Assolutamente. Ed è anche un desiderio di dialogo con dei mondi che non sono strettamente quelli del teatro. Se vuoi il progetto nasce anche da un disagio, dovuto al fatto che il mondo del teatro ci sta abbastanza stretto e i dialoghi che già abbiamo e che ci interessa avere vanno al di là, anche se molto teatro italiano non è abituato a pensarsi in questo modo. Segno che c’è ancora molto lavoro da fare.

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co-fondatore e direttore
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