Prenditi uno o due giorni di tempo e prova a fare l’inventario di tutto, ma proprio tutto, quello che hai in casa. Dallo spazzolone del water all’inchiostro per la stampante, dalla penna alla t-shirt comprata in uno dei tanti negozi di marchi low cost, dal mouse che stai usando in questo momento alla lampadina che illumina la tua scrivania. Lo scopo? Fare una statistica per scoprire quanta parte di ciò che siamo (se siamo quel che abbiamo) è Made in China.
Azzardo (perché mica ce li ho due giorni di tempo!): quasi il 50%? Più del 50%?
E mentre ci esaltiamo davanti a video in slow motion, pieni di primissimi piani di mani al lavoro su prodotti artigianali che difficilmente potremmo permetterci, e tra una colonna sonora emozionante e l’altra, tra una messa a fuoco selettiva e palette di colori che virano — a scelta — sull’arancio o sull’azzurro, sappiamo nulla o poco più di nulla su come viene fabbricato quell’ipotetico 50% di cose che riempiono le nostro case e le nostre vite, a parte gli sporadici servizi tv o i reportage dei giornali relativi quando “Grande Miracolo Economico Cinese”, quando alle condizioni al limite dell’umanamente sopportabile a cui sono costretti i lavoratori.
Curiosi di saperne di più, due designer svizzeri — Anaïde Davoudlarian e Gregory Brunisholz, dello studio Anaïde Gregory, alle porte di Ginevra — hanno deciso di fare le valigie e trasferirsi per cinque mesi in Cina, alla scoperta della mastodontica, schizofrenica, inarrestabile macchina produttiva che costruisce e sommerge l’occidente di roba.
Il frutto del loro viaggio è diventato prima un sito, Made in China Diary, poi un omonimo libro, in cui Anaïde e Gregory raccontano in stile appunto diaristico («Dopo essere arrivati a Zhuji abbiamo preso il taxi fino al gigantesco centro commerciale delle perle […]») le loro scoperte, accompagnandole con una serie di belle foto che i due sono riusciti a scattare in svariate location, dalle fabbriche gigantesche ai garage semi-abusivi sotto casa.
Anche se non ci sono scoop, anzi forse proprio perché non ci sono scoop e si è lontani dai toni trionfalistici (da una parte) o di condanna (dall’altra) che di solito accompagnano tutto ciò che è relativo all’argomento, Made in China Diary è un bel libro, di quelli da “tavolino da caffè”, da lasciar lì quando ci sono ospiti, in attesa che qualcuno lo prenda, lo sfogli, ci pensi un po’ su, e poi torni a casa a guardare le sue di etichette, di targhette, di cartellini, di marchi che inesorabilmente ma quasi impercettibilmente avvertono che, sì, anche la sua vita è quasi tutta Made in China.