Un libro raccoglie il meglio della tipografia “trovata” per le strade d’Italia da una designer italoamericana
Serve un graphic designer, oppure un bambino, per accorgersi delle meraviglie di progettazione grafica e tipografia in cui ci imbattiamo ogni giorno semplicemente girando per strada.
Parlo delle insegne dei negozi, soprattutto quelle tradizionali, “fatte bene” non per seguire chissà quale moda ma perché così andavano fatte: bene, per l’appunto. Quelle delle botteghe che si tramandano da generazioni o dei negozi dove ancora resiste il vecchio commerciante che non ha idea di cosa sia una pagina facebook e se gli consigli di prendersi uno “stratega” del social media marketing ti guarda sospettoso da sotto a quegli occhi gonfi e a mezz’asta, come le serrande quando la sera si ferma a fare i conti di quel che c’è in cassa dopo la chiusura, e ti chiede: «stratega di che? E a che mi serve? Siamo in guerra?».
Serve un graphic designer, dicevo, perché riconoscere (prima ancora di fare) un buon progetto è il suo mestiere. Ma serve anche un bambino perché è l’unico — almeno quando inizia a imparare a leggere — a interessarsi al segno grafico con tanta puntigliosa meraviglia, tanta caparbia curiosità e tanta affamata voglia di mettersi alla prova.
«Papà perché la S ha tutti quei riccioli? Perché la R e la P non hanno il buco? Perché la A è così alta?» (consiglio a tutti i tipografi e i graphic designer senza figli: offritevi di fare i baby sitter a quelli, di 5/6 anni, degli amici: vi divertirete un mondo a spiegare e raccontare durante una passeggiata).
Il resto di noi, non più bambini né con studi di grafica alle spalle, il valore di quelle insegne semplicemente lo percepisce, lo assorbe senza farsi domande, esattamente come capita a chi ha la fortuna — come la maggior parte di noi italiani — di vivere circondati dal bello, sa di starci in mezzo ma non sa spiegare perché il bello… sia bello.
È necessario quindi un occhio allenato, capace di apprezzare, ma anche un occhio estraneo, non abituato, non assuefatto.
Louise Fili quell’occhio ce l’ha: lei è italoamericana e in Italia viene solo di tanto in tanto. E soprattutto è una designer, dunque in possesso di tutti gli strumenti per capire e ammirare.
Capire, ammirare ma, nel suo caso, anche catalogare visto che la Fili ha raccolto in un libro — pubblicato appena tre mesi fa dalla Princeton Architectural Press — le migliori insegne italiane, frutto di un’intensa ricerca sul campo fatta in svariate città della penisola.
In Grafica della strada: The Signs of Italy non è difficile imbattersi in luoghi familiari, magari negozi e botteghe dove sei andato tante volte a fare acquisti senza notare (eppure, in qualche modo, accorgendotene, ma solo “sotto pelle”) lo splendore dell’insegna.
E riscoprirle tra le pagine di un libro (che è anche una dichiarazione d’amore di 264 pagine alla grafica italiana “di strada”) — a me è successo con quelle di Bologna — è una piccola epifania oltre che un importante memento a guardare, non solo a vedere.