Intervista a Stefano Bonilli

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Come evolve il racconto del cibo e del vino in Italia? Ho deciso di soddisfare la mia curiosità facendo qualche domanda a Stefano Bonilli, senatore dell’enogastronomia italiana, che ci racconta la sua esperienza dal Gambero Rosso (che ha fondato nel 1986) al blog Papero Giallo e oltre…

Hai fondato il Gambero Rosso nel 1986. Che facevi prima? Ti occupavi sempre di cibo e vino?

No, ero giornalista economico e di attualità, inviato de Il Manifesto, dove ho lavorato per 10 anni, poi me ne sono andato ed ho lavorato 3 anni alla Rai, ma non avendo tessere di partito non sono stato assunto. Nel 1986 sono tornato al Manifesto proponendo loro di fare un supplemento che parlasse di cibo e vino. A loro, a dire il vero, gli argomenti non è che interessassero poi molto, ma mi hanno dato il via libera a condizione però che la cosa non costasse nulla. Bastava non spendere soldi. Il primo numero era un inserto di 8 pagine, ma aveva già una grande grafica fatta da Piergiorgio Maoloni, che era un bravissimo designer di allora, e aveva ridisegnato l’Unità, la Stampa e molti altri quotidiani italiani e stranieri, oltre che lo stesso Manifesto.
Quel giorno, il 16 dicembre 1986, il giornale ha venduto il 30% in più e allora anche il loro atteggiamento cambiò. E anche se erano poco interessati a cibo e vino hanno detto che potevamo continuare.
Il Gambero Rosso era un supplemento mensile, prima inserito dentro al giornale, quindi stampato su carta da quotidiano, e dopo un anno è divento un supplemento esterno, disegnato con il Macintosh. Siamo stati i primi a disegnare le copertine con il Macintosh.

Io me lo ricordo già in formato Guida. La teneva mio padre in macchina…

Nel 1992 il Gambero Rosso è uscito in edicola, poi sono arrivate la Guida dei Vini, che è stata subito un successo, la Guida dei Ristoranti, nel 1999 il canale televisivo Gambero Rosso Channel, nel 2002 la Città del Gusto.

Un vero successo…

Sì, per una serie di concause credo abbastanza irripetibili. Nel momento in cui nacque il Gambero Rosso, l’astro di Veronelli era calante e non c’erano altri in quel panorama. Noi abbiamo fatto una rivista che anche grazie a una splendida grafica (ero amico di Maoloni, che all’epoca stava rifacendo Il Manifesto) era una novità editoriale assoluta, già quando era semplice inserto di 8 pagine. A quello si deve già buona parte del suo successo.
Era di una modernità assoluta. Alcuni edicolanti mi raccontavano che c’era gente che comprava Il Manifesto, teneva l’inserto e buttava il giornale. Succedeva anche il contrario per la verità. Cioè tenevano il giornale e buttavano l’inserto…

[Rido] Mi sa che in base a che cosa decidevano di cestinare si sarebbe potuta fare una profilazione politica del lettore. Capirne gli orientamenti.

Infatti. Oltretutto era una specie di follia, perché usciva il primo martedì del mese, ma che significa il primo martedì del mese? Chi se lo ricorda quando cade? Nessuno! E poi se ci andavi il mercoledì non lo trovavi più!
Colpiva poi più di ogni altra cosa che fosse l’allegato a un giornale di sinistra ad occuparsi di argomenti che almeno allora erano considerati assolutamente leggeri, quando invece muovono l’economia italiana. E in mondo consistente anche.

Stessa cosa che ancora talvolta avviene anche per la moda.

Sì, sempre stata snobbata.

Pensa che ancora fa notizia la presenza e le parole del Presidente del Consiglio in carica al Pitti Uomo…

E infatti guarda caso anche con la moda non siamo riusciti a fare sistema e le grandi imprese della moda italiana sono in mano a multinazionali straniere!

Per non parlare del Made in Italy, che pare il guscio vuoto di una lumaca che si genera altrove.

Il vantaggio però, con i prodotti agroalimentari, è che se tu provi a prendere un carciofo romanesco e lo pianti in California, come hanno provato a fare gli americani, viene fuori una roba che è più simile a una bomba a mano che a un carciofo, perché la terra, l’aria, il sole determinano il quid che fa crescere bene il carciofo romanesco, solo attorno a Roma.

[Intervengo polemica] Sì però anche in quello abbiamo fatto parecchi guai: pensa all’olio d’oliva! Pensa agli imprenditori senza scrupoli che lo comprano in Spagna o in Grecia — nemmeno sempre olio per uso alimentare — e con quello tagliano le loro produzioni! O alle cosce di maiale arrivate dall’Olanda! Insomma l’elenco delle malefatte sarebbe lungo.

Però pensa quanto ancora vale la voce Made in Italy. Nonostante tutto non siamo riusciti a cancellare l’importanza di questo marchio. È una “semina” di secoli di tradizioni, di artigianato alimentare, di motivazioni geografiche, culturali, politiche, religiose che hanno fatto sì che tra la vette delle Alpi e Pantelleria ci siano centinaia di qualità di salumi, 420 tipi di diversi formaggi se non 450.
I francesi, che ne hanno molti meno, sono bravissimi ad attirare l’attenzione e fare sistema, noi invece iniziamo adesso a renderci conto di come dobbiamo procedere. Prima abbiamo sprecato. Però “questa roba” incide sul PIL in modo pesantissimo, come la moda, e adesso cominciano ad accorgersene. Ovvio ci vuole anche l’industria, non è che possiamo diventare il “paese dei balocchi”, ma questa parte qui è stata una follia non usarla per conquistare i mercati internazionali.

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Esistevano già altre guide italiane quando è nata quella de il Gambero Rosso?

Si esisteva la Guida Veronelli, la Guida dell’Espresso e la Guida Michelin.
Ma nascendo in seno a Il Manifesto, quanto cioè di più lontano si possa immaginare rispetto a una narrazione del cibo e del vino, c’era un’enorme vantaggio, visto a posteriori. Perché Il Manifesto era un giornale che era dentro a tutte le mazzine di politici, intellettuali, sindacalisti dell’epoca e quindi finiva in mano loro anche il Gambero Rosso, che era allegato.
Quel Gambero raffigurante un “mondo Bengodi” che raccontava l’artigianato, i vini, i ristoranti, gli alberghi… una cosa che a sinistra era “il peccato”: quindi è stata una doppia rottura.
Poi, come ti ho detto, sono nati i prodotti editoriali, perché mancava una guida dei vini in cui questi venissero raccontati senza fare le cosiddette “marchette” e la guida ha avuto subito un successo travolgente, arrivando da sola, e presto, a vendere ottantamila copie in Italiano, quarantamila in Tedesco, quarantamila in Inglese, quindi possiamo dire che era un prodotto che faceva il mercato del vino italiano a livello internazionale.
La Guida dei Ristoranti l’abbiamo lanciato perché la Guida dell’Espresso, che usciva ormai da dieci anni (è del 1979), nel 1990 stava peggiorando molto. La Michelin non era una guida raccontata, ma una guida di geroglifici: 1 stella, 2 stelle, 3 forchette e via dicendo. Adesso l’hanno un po’ allungata e ci sono tre righe di commento, ma prima non c’era nulla. E poi era straniera.

Perché le guide italiane nascono così tardi? Insomma la guida Michelin è nata nel 1900 i ristoranti compaiono per la prima volta nel 1920.

Innanzitutto manca la cultura del cibo che hanno i Francesi, poi per via dei soldi del signor Michelin e delle caratteristiche dell’Italia, nel senso che girare per la Francia era possibile già ai primi del ‘900, girare per l’Italia sarebbe stata una bella impresa.

Lo è anche adesso se vieni a Sud…

Pensa al 1900! Rischiavi di trovarti con la macchina senza le gomme per via delle strade malandate. Il viaggiare lì invece era una cosa fattibile e la Guida nasceva come un accompagnamento al viaggiatore fatta da un’azienda che vendeva pneumatici. Qui in Italia non c’erano le condizioni e la Guida Michelin stessa è arrivata nel 1959 ma si fermava comunque a Firenze, più a sud non scendeva, pareva ci fosse una sorta di hic sunt leones.

E come vi approcciavate alle vostre Guide, alle recensioni dei ristoranti e dei vini?

Quando siamo nati noi con il Gambero l’atteggiamento è stato quello di il re è nudo. Andavamo da perfetti sconosciuti, facevamo la recensione per ciò che avevamo provato e quindi ne usciva un prodotto totalmente dirompente rispetto a ciò che c’era, perché fatto con gli occhi del consumatore.
E quelli della Guida dei vini, i produttori dico, ci suggerivano, per esempio, nuove aperture di ristoranti che loro avevano appena rifornito, quindi godevamo di informazioni su ciò che di interessante e nuovo succedeva. Erano gli anni ’90 ma sembra un secolo fa, nell’ottica di come si è poi sviluppata la comunicazione da allora. Allora noi siamo entrati nel “sancta sanctorum” e ci siamo accreditati tra i pochi santoni, che potevano fare le fortune o le sfortune.
Con l’arrivo del digitale, poi, tutti hanno iniziato a raccontare tutto. Sta a chi legge fidarsi o non fidarsi.

Ad un certo punto, credo intorno al 2008, non so bene perché, la tua esperienza al Gambero terminò, credo anche male perché ho letto di una vicenda giudiziaria. Hai deciso così di aprire il blog Papero Giallo?

Beh, sì ho avuto una rottura imprenditoriale con il Gambero Rosso, ma il blog viene da prima. Il mio è stato il primo blog di cibo in Italia. È nato nel 2004.

Cavolo, sei più vecchio di noi anche come blogger allora!

Quest’anno facciamo il decennale. Sono stato il primo che, pur essendo direttore di una rivista e anche editore, e avendo nel mio settore un grosso nome, ha fatto un blog con nome e cognome. Quindi come puoi immaginare i primi mesi i vari troll hanno sparato a zero ma poi siccome in rete vince l’autorevolezza furono gli stessi lettori a difendermi, senza bisogno di farlo io sempre e comunque, e alla fine si placarono.

Come mai Papero Giallo?

Ho pensato a un papero giallo perché mi piaceva come figura. E poi se c’era il Gambero Rosso perché non un Papero Giallo? Ci stava.

In che modo era ed è diverso il tuo racconto del cibo e del vino nel passaggio dalla guida del Gambero Rosso e dalla rivista al blog Papero Giallo?

Beh Papero Giallo ero io, in prima persona, che raccontavo. E mi rendevo conto che specie allora — essendo direttore della rivista del Gambero Rosso, di Gambero Rosso Channel delle varie Guide del Gambero Rosso — che se scrivevo che un ristorante era buonissimo di sicuro gli mandavo lì 100 persone e se non fosse stata credibile, la cosa, per primo ero io a perdere la faccia.
E poi non era fatta solo di schede di ristoranti, ma di un racconto a 360° di questo mondo che poi era un mondo che via via si stava formando, commettendo errori e ingenuità. E io ci stavo dentro da un osservatorio particolare, sapevo le cose prima degli altri: a quei tempi avevamo al Gambero 80 collaboratori che ogni anno facevano la Guida dei Ristoranti, e 100 che facevano la Guida dei Vini. Avevo il territorio monitorato per bene e, ovvio, sceglievo quello che più mi incuriosiva e mi piaceva, per metterlo sul mio blog.

Ci metti un bel po’ del tuo, io ti leggo, e tu certo non sei uno che le manda a dire! Tra critiche dirette e opinioni “politiche” ti dai molto ai tuoi lettori.

Sarebbe stato stupido da parte mia nascondere le mie opinioni. Del resto il Gambero Rosso è nato in seno a Il Manifesto: non potevo né ci tenevo a nascondere che la mia storia fosse di sinistra. Adesso i tempi sono cambiati e fa anche ridere parlare di schieramenti…

No, ma io intendevo “politica” nel senso ampio del termine.

Sì, mi schiero, perché penso che certe ipocrisie del mondo del cibo, della ristorazione, del vino vadano assolutamente superate. Che le cose vadano dette. Questo è stato un mondo in cui per anni ha prevalso la retorica e l’apparenza, io ho cercato da subito di raccontare la realtà e la sostanza delle cose.

E che mi dici del nugolo di foodblogger, foodwriter e via discorrendo che negli ultimi anni affollano la rete e gli eventi?

Era abbastanza ovvio che, adesso che il cibo è vincente, sul carro saltino po’ tutti. Pensa anche al molto celebrato Farinetti: lui aveva molti soldi da investire, e da persona intelligente quale è, ha capito che nel settore alimentare non c’era nulla di moderno e si è inventato la catena Eataly, facendo in fondo una cosa che molti altri ricchi potevano fare. Se ci pensi non serviva genio particolare: ha visto una prateria libera e l’ha occupata.

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A proposito di saltare sul carro vincente, torniamo a foodblogger, foodwriter & co. Come li vivi?

Da un lato è positivo. Ben vengano quelli che narrano le cose!
Io ho creduto molto presto nella rete, ho fatto fare il sito del Gambero Rosso già nel 1995, tutta la redazione già nel 1988 aveva i Mac, perché avendo io tutta gente nuova figurarsi se volevo usassero MS-DOS per scrivere… Eravamo già allora moderni e proiettati in avanti, anche se andavamo a raccontare un mondo antico.
Vedo però purtroppo che molti — non tutti per fortuna! — stanno ripercorrendo in pochi anni gli errori che la stampa ha fatto in decenni. Cioè ti vai a vendere per un invito o per 6 birre che ti mandano in degustazione. Una cosa penosa.
Avessi fatto così anch’io forse sarei diventato miliardario ma non ho mai fatto, né fatto fare, quando ero direttore del Gambero Rosso, un redazionale. Probabilmente poi questi sono solo “errori di gioventù”.

All’inizio eravate in pochi a parlare di questo settore sul web.

8-10 al massimo. Perché in qualche modo l’accesso era negato.
Io vengo da una storia per cui sono stato il primo a fare l’esame da giornalista professionista provenendo da Il Manifesto. Prima per fare l’esame dovevi essere stato collaboratore di almeno uno dei grandi giornali: quello era lo sbarramento vero! Quindi raccomandazioni politiche, tessere di partito, i familiari, prostituzione intellettuale. Quando arrivai io da Il Manifesto la commissione quasi mi disse «parla di quello che vuoi». Sembravano impauriti. Perché gli arrivava, per la prima volta, un signore che era di una specie nuova. Poi per fortuna le cose sono cambiate. E anche qui l’ingresso dei foodblogger nel mondo dell’enogastronomia ha avuto un effetto positivo.
Adesso abbiamo una velocità di informazione che ha cambiato tutto. Se c’è una ricetta buona a Sydney, dopo nemmeno un’ora tu te la sei letta ad Alba e se vuoi la rifai.

Ok, allora promossi — tranne qualche riserva — i foodblogger. E che mi dici di Instagram, Facebook? E delle recensioni su TripAdvisor, per cui pare siano tutti critici gastronomici? Quello non cambia ulteriormente il racconto del cibo? Se con una o più recensioni anonime puoi cambiare le sorti di un’attività commerciale senza manco doverci mettere nome e faccia, siamo un po’ alla giungla, o no? Mi riferisco a casi in cui poi è stato chiaro che i commenti erano guidati da una regia, che poco aveva a che fare con veri clienti, e più con concorrenti invidiosi. Anche su Gazzetta Gastronomica ho letto di…

[Mi interrompe] Sì, parli di Roberta Corradin, scrittrice che con il marito chef ha aperto un Ristorante e si è dovuta difendere su TripAdvisor (qui la sua storia).

[Interrompo io] E meno male che lei è stata in grado di rispondere, ma quanti chef sanno o hanno il tempo di farlo con quella costanza e in quelle modalità? E poi — altra cosa — che ne pensi di quelli che postano ogni loro singola colazione? Anche quelle a base di latte e fette biscottate stantie? O le loro orrende pastasciutte? Dici che è necessario?

[Ride, immagino per il mio infervoramento] Sono delle nevrosi collettive.

Ma la vera domanda è: tutto questo entra a far parte del racconto? O fa parte solo di un’ossessione collettiva, che temporaneamente si sfoga sul cibo, ma con il cibo in realtà ha poco a che vedere?

Ma sì, ai tanti vantaggi che la rete offre e del rinnovato interesse per il cibo, corrispondono anche degli svantaggi, forme di avvitamento su sé stessi.
È ovvio però che questa circolazione enorme di notizie, questa velocità, cambieranno anche la ristorazione. Il ristorante di lusso ormai non ha più grandissima importanza, i costi sono talmente alti che devi per forza pensare a un’altra cosa.
E poi sono cambiati i tempi. Dalla Lehman Brothers in poi è cambiato tutto. È per questo che l’Italia ha un grande vantaggio: la struttura italiana non è il ristorante ma la trattoria a gestione familiare, ce ne sono a migliaia tutt’ora. Quindi hai maggiore tenuta, perché hai fatto l’accumulazione primitiva prima, adesso fai un po’ di autosfruttamento, se hai una famiglia numerosa non hai manco problemi di personale, e “tieni botta”.

Quindi il futuro è nelle trattorie?

Ovvio che anche tra le trattorie ci sono quelle buone e quelle cattive, quelle che hanno mantenuto la tradizione alleggerendo magari la loro cucina, perché i tempi sono cambiati, e quelle che sono “false” trattorie. Ma è lo stesso che nei falsi romanzi… Sta all’avventore saper formarsi un’idea e scegliere in modo intelligente. Noi non è che possiamo fare un’opera “montessoriana” e seguire il pubblico per educarlo e non farlo sbagliare. Noi diamo indicazioni ma poi è giusto che la gente si prenda le sue “scornate” e che capisca che quel locale faceva schifo e quella pizza era immangiabile…
La rete contribuisce a divulgare e anche velocemente. Poi sta al singolo saper scegliere le fonti.

Ho letto dell’evento che si terrà a Bologna a settembre sull’editoria enogastronomica. Di che si tratta? Così, vista dall’esterno, pare una sorta di proclamazione degli stati generali, è così?

Sì, il 20 e 21 settembre a Bologna, ad Alma — l’Alma vera non quella che ha rubato il nome — l’Alma MBA dell’Università di Bologna, la mia università. Facciamo una riunione, sul modello TED: un microfono e un racconto di una storia mirata, all’interno di una trama. Si racconteranno delle esperienze sull’evoluzione della rete. Per fare un po’ il punto di dove siamo.

Già, dove siamo?

Ormai l’identità dell’Italia ce la stanno spiegando gli stranieri. Intendo i blog e i magazine di lingua inglese, perché hanno più diffusione. Per cui per esempio anche qui a Roma ci siamo allevati una serie di giornaliste che non sapevano distinguere tra uno spaghetto e una fettuccina e adesso loro raccontano Roma e siccome la raccontano in inglese, determinano le tappe dove si ferma la gente.
Si pone il problema della lingua, che non è un problema da poco. Stanno nascendo siti, blog italiani scritti in lingua inglese ma che non hanno tenuto conto però che Google fa indicizzazione partendo dalla IP, quindi se scrivi in inglese dall’Italia sempre Italiano sei! Questi sono i problemi tecnici e di contenuto di cui vogliamo arrivare a parlare a Bologna.
È buffo che l’Italia, che su questo terreno è una vera superpotenza, debba farsi raccontare da altri, quasi fosse commissariata dagli stranieri, che vengono qui e bellamente scrivono di X e non di Y.
E siccome, io sono abbastanza fuori dai giochi, perché sono il “senatore” di tutto il gruppo del food italiano, ho proposto questo incontro perché lo sentivo come necessità. E ho avuto moltissime adesioni.

Ma mi chiedo: a questi blogger o giornalisti stranieri chi indica il posto sbagliato? Dici che ci vanno in autonomia e poi se ne vengono fuori con “la migliore gelateria di”?

Allora, premesso che io trovo ormai nevrotizzante parlare di “il migliore” o “i 10 migliori” ecc, non c’è dubbio però che questo sarà uno dei temi di discussione. Ovvero come trasmettere un insieme di qualità molto grande?
Sono stato a Rimini per l’edizione zero di Al Mèni e una giornalista straniera — che io non nomino per carità cristiana — ha scoperto Corrado Assenza, un signore che già 20 anni fa era sulle pagine del New York Times per i suoi cannoli e il suo gelato al cioccolato e che gli Italiani non conoscevano.
Ecco il discorso è questo: Corrado è uno dei miei/nostri campioni e i miei campioni devono essere intanto questi qua! Sono dei classici, non sono discutibili. Poi è ovvio che ce ne sono altri di molto bravi di cui si può parlare. Ma la qualità, voglio dire, non è relativa. Sul cibo esiste anche una qualità assoluta, che è nelle materie prime che usi, nel tipo di cultura, nella tua capacità.
Fare il pane per esempio: qui a Roma basta fare 50 metri e da un pane meraviglioso passi a quello in cui ti chiedi «Dio mio che farine usa? Che acceleratori chimici?», insomma immangiabile.
Tutte cose queste fanno parte di un bagaglio e non è che tu, che scrivi da due mesi o un anno, le possa ignorare. Certo, in due giorni non è che riesci a affrontare e risolvere tutti questi aspetti, ma è importante metterli sotto i riflettori, iniziare a ragionarci su.

E i blogger?

Ci saranno anche loro, li inviteremo. Ma non è che noi vogliamo dare regole a qualcuno. Si tratta di dire che, se continuiamo a fare in un certo modo, all’estero continueranno a leggerci così. Poi ovvio ognuno farà come crede il proprio lavoro.

[Stefano, educatamente, scalpita, lo percepisco: mancano 15 minuti alla partita (che molto meno educatamente caccerà l’Italia fuori dai mondiali 2014). Così gli faccio l’ultima domanda] Hanno ancora senso le guide enogastronomiche?

Una guida si fa tra gennaio/febbraio e poi giugno/luglio, dopo di che si fa il lavoro redazionale, e a ottobre esce, e quando esce è già un racconto vecchio. Con il digitale è evidente che bisogna porsi il problema, che è però un problema di difficile risoluzione, tanto è vero che perfino Google, che si è comprato Zagat e che pensavo facesse subito degli interventi non avendo loro limiti di budget, non ha ancora trovato soluzione, e ancora Zagat è la trasposizione della versione cartacea.
Non si deve andare verso una guida in senso tecnico ma avere accesso a siti dove, per esempio, il meglio di Roma è raccontato in divenire continuo.
Parlando del “qui e ora”: vicino a casa mia hanno aperto un pizzeria da 20 giorni, ed è buona. Non sarà su nessuna guida, sarà sulla prossima, ma se poi nel frattempo va via il pizzaiolo, la cosa perde completamente senso. Tutto questo può essere raccontato solo sul digitale!
Magari la guida può essere valida per il racconto dei “classici” o per una storia complessiva. Poi sono anche crollate come vendite, ma in fondo hanno ancora un loro perché, non è che vengo qui a dire che la Guida dell’Espresso o quella Michelin devono chiudere! Certo è che vendono meno, che sono diventato in parte altro rispetto a ciò che erano. Che non hanno più il peso di un tempo, anche perché alle ultime generazioni non passa neanche per la il cervello di andare a vedere una guida: hanno i loro luoghi di discussione e consultazione altrove, sulla rete, dove si vedono e si raccontano.
O — brividi — il pubblico medio va su TripAdvisor, che è la guida internazionale che funziona, perché la gente che viaggia e non ha alcuna sensibilità gastronomica ma vuole un ristorante vicino a Piazza Navona dove andare a mangiare, lo cerca su TripAdvisor.

le illustrazioni sono di Luca Laurenti/Mklane

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