Vicenzaoro è una fiera che conosco bene: per molti anni ho passeggiato per i suoi corridoi luminosi e luccicanti, in cerca del fornitore perfetto. In questo periodo ho potuto vedere come sia stata in grado di evolversi, assecondando il mercato e le sue esigenze.
Quest’anno ha fatto di più con Origin Passion & Beliefs un nuovo progetto in collaborazione con Not Just a Label, la piattaforma leader online nella promozione e nel supporto dei designer contemporanei indipendenti ed emergenti.
Proposte molto differenti tra loro quelle presentate nel padiglione dedicato ad Origin, ma accomunate da qualità e creatività: la prima sensazione è stata quella che ogni stand fosse un po’ la casa del designer, arredata in base ai propri gusti e in grado di trasmettere il senso estetico, emotivo ed eventualmente politico/ideologico della sua produzione al primo sguardo.


Cassandra Verity Green ha offerto atmosfere futuribili, in linea con i coloratissimi materiali urbani di recupero che ama utilizzare per i suoi abiti e accessori.

Mario Salvucci ha trasformato lo stand in una ragnatela enorme per fare spazio ai suoi meravigliosi ragni gioiello.


I ragazzi di Mrs Herskin hanno creato un mondo malvagio e magico come gli zaini e le borse con corni e riferimenti dark, ma il dark “di una volta”, che non ha niente a che vedere con l’emo.
Un po’ installazione artistica, un po’ retrobottega artigianale, c’era anche chi lavorava in diretta, all’interno dello stesso stand.
Quello che mi ha colpito maggiormente è stata proprio la provenienza eterogenea degli espositori. E la presenza di paesi inaspettati come Ucraina, Libano, Dubai, Svezia…
Importanza massima tributata al fatto a mano, come ha sottolineato Glori Tsui, designer di Methodology, dicendo con tono deciso e voglia di dissipare ogni dubbio: «Siamo di Hong Kong ma i nostri accessori trasformabili sono fatti a mano, sono pezzi unici e i pellami sono italiani o spagnoli». Un vero ribaltamento delle prospettive.






Tecniche di lavorazione sapienti e frutto di analisi, come quelle di Chiara Scarpitti che cuce i suoi braccialetti con la stessa tecnica di lavorazione sartoriale con cui nel XVI secolo si fabbricavano le gorgiere.



Materiali naturali e soprattutto materiali locali. Alla riscoperta delle origini. Così la svedese Minna Palmqvist usa la pelle della renna e Khulood Than, che arriva da Dubai, quella del cammello.


«Sono gli elementi a comandare», mi ha spiegato la designer di Gbgh Jewels, «noi viviamo a New York ma siamo brasiliane ed è proprio in Brasile che troviamo le rocce per i nostri gioielli, ed è la pietra che ci guida. Prima viene la pietra e poi la forma del gioiello. Non il contrario».


Contrasti estremizzati, super decorazioni come quelle negli opulenti abiti di Nguyen Cong Tri si alternano al minimalismo e a stampe colorate e inusuali, come quelle che Howitzweissbach inserisce persino sulle scarpe da uomo e fanno da contraltare al grigio uniforme.

Attenzione ai volumi, ai dettagli, a quello che non si vede dentro a quello che si vede. Più che abiti o accessori quasi opere concettuali, «altamente ideologiche», come Minna Palmqvist definisce i suoi abiti, che, senza il racconto di chi li ha creati con tanto amore, perderebbero parte del loro fascino.
Emozionante d’altra parte sentire le parole di chi ci crede davvero, di chi va oltre le logiche del mercato e anche della crisi, di chi crea con e per passione e spera di interessare con la sua coerenza e il suo dare vita a ciò in cui crede.


Il forte legame tra moda e arte è stato sottolineato in ogni dove. Dalla mostra visibile, all’entrata con abiti di grandi firme selezionati Mittelmoda fino alle due esposizioni curate da Maria Luisa Frisa: Corporeality, il gioiello secondo Gianfranco Ferré e Carmina Campus Space Waste.




E tra i designer c’è stato anche chi, come Stephen Venezia, ha colto l’occasione per presentare, come in una mostra, sette anni di collezioni. Mettiti un paio di scarpe e andiamo a ballare, è quasi il caso di dire.
O chi, come l’esordiente e bellissima Lara Quint, ha scelto di inserire un quadro di Van Gogh nella stampa di ogni suo articolo.

Unico appunto: le creazioni erano esposte in maniera forse troppo “artistica”, così da indurre una sorta di timore reverenziale nel visitatore non addetto ai lavori (ho sentito con le mie orecchie un signore chiedere in entrata un indicazione per visitare con coerenza la mostra per capirne il senso).
Per il resto mi auguro che questa edizione sia stata la prima di molte altre e decreto, per quel che mi riguarda, riuscitissimo il matrimonio tra Vicenzaoro e Not Just a Label.