Tra avatar, profili fake, morti che twittano, rendering che sembrano foto, foto ritoccate al punto tale da sembrare quadri iperrealisti a loro volta dettagliati come foto, realtà virtuale e realtà aumentata, mockumentary, ogm, cibi creati in laboratorio, leggende metropolitane che arrivano sulle prime pagine dei giornali, partiti che basano il proprio programma sulle bufale, cronaca nera che si fonde coi reality show…
Da Rrose Selavy alla Società dello spettacolo di Debord, da Reagan il presidente attore a Berlusconi “l’imprenditore nato dal nulla” che trucca e imparrucca sé stesso e le telecamere che lo riprendono per sembrare più giovane, da Cannibal Holocaust alle case immortalate nelle riviste di interni, opera di stylist, tecnici della luce e software di fotoritocco, così come gli editoriali nei magazine di moda: viviamo nei tempi del “verosimile”, del “come se”, dell’artificiale spacciato per naturale.
Per ovvia reazione periodicamente ritorna fortissima e irresistibile la voglia di vero, di crudo, rozzo, nudo, imperfetto. Ed ecco il revival dell’artigianato, del fatto a mano, delle vecchie tecniche di stampa, della musica ascoltata su vinile, della fotografia analogica e — come ci ha raccontato qualche giorno fa Giorgio Melandri — anche in cucina si sta tornando alle origini, alla brace e al selvatico.
E se nel mondo dell’editoria indipendente c’è chi ha scelto questa strada già da tempo (vedi Apartamento e le foto delle unstyled homes, case vere, così come sono, non il “disordine” creato ad arte delle riviste patinate) un nuovissimo magazine come Bare Journal prova ad alzare il tiro, proponendo oltre a foto non ritoccate (nemmeno una, editoriali di moda compresi) anche contenuti meravigliosamente disordinati, liberi, realizzati senza seguire alcuna indicazione editoriale dalla “redazione diffusa”, al di là e al di qua dell’oceano, di questa giovane testata, capitanata dalla creative director Claudia Bruno.
foto via Alex Aráez, art director di Bare Journal