Biologna, cibi bio a km0 nel cuore del Pratello

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Incontro Davide Tiriduzzi nel suo negozio di cibi biologici e a chilometro zero Biologna, nel cuore del Pratello, a Bologna, proprio accanto a Senape Vivaio Urbano. Davide ha aperto da poco, si potrebbe dire che è ancora in rodaggio, ma molti di quelli che passano e che entrano sembrano già conoscerlo bene. C’è un clima familiare, da negozio di una volta, anche se le linee pulite ed essenziali dell’ambiente sono inequivocabilmente quelle di una bottega bio del 2000.
Osservo Davide che si aggira fra gli scaffali dell’ortofrutta (bella anche a vedersi, tanto per smentire l’equazione buono=brutto) e faccio fatica a immaginarmelo dietro il bancone del fast food in cui ha lavorato per cinque anni quando era a Firenze. Mi racconta che di cibo, lì, se ne buttava via tanto, e non solo la sera, alla chiusura: la vita media di un panino è di 10 minuti, dopo di che l’insalata appassisce, l’hamburger diventa meno invitante e tocca mettere sotto gli occhi dei clienti qualcosa di più appetibile.

Per uno cresciuto con la nonna che lo bacchettava se buttava via anche solo un pezzo di pane dev’essere stata dura…

Sì, molto. La sera cercavamo di distribuire i panini invenduti agli homeless della stazione, ma dovevamo farlo di nascosto perché non doveva spargersi la voce che lì al fast food, dopo una certa ora, si poteva mangiare gratis. È assurdo.

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Però quest’esperienza, in fondo, è stata formativa nel tuo percorso di avvicinamento al bio. E non è stata l’unica: quando ti sei trasferito qui a Bologna hai cominciato a lavorare in un negozio di lusso del centro, una delle griffe del lusso per antonomasia. Lì com’è andata?

Era un mondo completamente diverso. Innanzitutto vendi sabbia per oro, cose spesso superflue che costano cifre spropositate. Tu vieni istruito a vendere bene e, siccome si tratta di prodotti eccezionali, il riscontro c’è pure. Però non era quello che faceva per me, ho cominciato a vivere un certo malessere che andava crescendo col passare del tempo. Il terremoto del maggio 2012 servì a darmi una scossa, lo vissi come un grido della terra e da lì, pian piano, iniziai a cercare un contatto più diretto con la natura.

Hai pensato subito di metterti in proprio?

No, sulle prime ho cercato lavoro nelle botteghe bio in città, ma sono tutte realtà molto piccole, spesso a conduzione famigliare, non possono permettersi di assumere. E allora mi sono detto: visto che nessuno mi vuole, che ho quasi 30 anni e un po’ di soldi da parte li ho messi, provo a fare da me. I soldi che ci ho investito li ho dati per persi e, con una buona dose di incoscienza, ho fatto questo salto.

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Come ti sei preparato per questo salto?

Ho fatto un corso di 100 ore della Camera di commercio che mi ha abilitato alla somministrazione di alimenti e bevande (corso SAB). Lo seguivo dopo il lavoro in boutique, dalle 20.30 alle 23.30, è durato da novembre a marzo. Perché la Regione ti chiede, per avviare un’attività imprenditoriale, requisiti morali e professionali.

Morali?

Non devi avere condanne, o frodi, o cose simili da almeno 3 anni, non devi essere mafioso… insomma, devi dimostrare di essere in regola. In ambito professionale, poi, i requisiti sono molto rigidi: la ASL nazionale e quella di competenza regionale ti impongono tutta una serie di regole quando si tratta di commerciare cibo, perché il cibo è una cosa molto delicata.

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Tu, oltre al biologico, anzi forse ancor prima di concepire l’idea di una bottega bio, avevi molto a cuore il discorso del chilometro zero, vero?

In realtà sono due cose complementari. Credo che ci possa essere, soprattutto nel territorio emiliano, uno spazio per tutti e due, perché l’Emilia è fra i primi produttori agricoli a livello nazionale. Tranne che per qualcosa (certi tipi di frutta, ad esempio, soprattutto agrumi) abbiamo un territorio in cui possiamo bastare a noi stessi. Poi ovviamente arrivano ogni giorno almeno due persone in negozio che mi chiedono banane, o la quinoa e l’amaranto che arrivano dal sudamerica, e io francamente non me la sento di spingermi così lontano.

Però magari le clementine dalla Calabria…

…sì, le clementine sì. Il compromesso più grosso però è stato il cioccolato. Noi abbiamo qui a San Giorgio in Piano uno dei più bravi cioccolatieri italiani (presidente dell’associazione CiocchinBo) e quindi il cioccolato lo prendo, anche se il cacao non è un prodotto locale. Mi metto anche nei panni del consumatore che, se non lo trova qui, lo va a comprare magari nella grande distribuzione qua vicino e trova un prodotto di qualità inferiore. Allora dico: tanto vale proporlo. Ma giusto per completezza di offerta. Tornando al discorso del chilometro zero, però, ci credo. E quindi lo porto avanti.

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E cosa succede quando un ventinovenne di belle speranze decide di aprire un negozio in piena crisi, nel 2013, a Bologna?

Innanzitutto non c’è nessun tipo di agevolazione per una persona giovane che vuole avviare un’attività imprenditoriale. Io in realtà non ho bussato a molte porte perché non volevo chiedere niente a nessuno, ma conosco ragazzi che hanno avuto lo stesso supporto che ho avuto io tramite Futura (società di San Giovanni in Persiceto che si occupa di avviamenti aziendali) e, quando hanno chiesto finanziamenti a tasso agevolato, non hanno mai ottenuto nulla.

Chiariscimi quest’aspetto della società che ti ha seguito nell’avviamento dell’attività. Oltre al corso SAB c’è stato anche questo passaggio?

Sì. Finito il corso di Somministrazione Alimenti e Bevande, ho capito che, non avendo mai svolto un’attività imprenditoriale perché sono sempre stato un lavoratore dipendente, avevo bisogno di un supporto. Un’amica mi ha segnalato questo sportello della Provincia che si chiama Progetti d’Impresa e aiuta le persone che vogliono aprire delle attività imprenditoriali. Loro ti seguono per la start up aziendale, nei limiti del possibile perché le persone che si affacciano in questi uffici sono molte e loro veramente pochi, ma disponibilissimi. Poiché il mio era un progetto molto articolato, nel senso che gli elementi da tenere in considerazione erano molti, mi hanno messo in contatto con Futura, che si occupa sostanzialmente di promozione d’impresa ma anche di istruzione, formazione.

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Quindi loro ti hanno seguito per la start up aziendale. E per il reperimento di fondi?

Lì è stata tutta una cosa mia: il mio TFR, i miei risparmi e basta. Ho rinunciato ai finanziamenti. Anche perché con la ditta individuale non hai certi costi, ad esempio non ti devi presentare dal notaio. Infatti io mi chiamo, sulla carta, “Biologna di Davide Tiriduzzi” perché per le ditte individuali il nome deve apparire.

Quindi il tuo nome è legato a doppio filo al tuo marchio. Mi sembra una cosa importante, in un territorio, perché sei riconoscibile già a partire da quello.

Speriamo!

Il tuo marchio ha poi un logo che si ricorda facilmente, con la carotina al posto della i… A proposito, come mai la carota?

In realtà volevo fare il ravanello, mi sembrava più carino, col ciuffetto… Però poi ho optato per la carota.

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E io che immaginavo tutto un discorso simbolico, perché la carota è una radice, cresce nella terra…

Beh, se vuoi ci sta anche quel discorso lì. Soprattutto ci tenevo ad avere un ortaggio nel logo.

E come nasce il nome Biologna? Come ti è venuta l’idea?

Biologna nasce per un errore. Stavo inserendo una fiche clienti nel data base della boutique in cui lavoravo e, siccome la i e la o nella tastiera sono vicine, come tante altre volte ho scritto Biologna. Però quella volta lì l’errore mi ha colpito, l’ho letto in maniera diversa: era perfetto come nome per il mio negozio: in una parola racchiude il chilometro zero, il territorio e il biologico.

Anche a me sembra un’ottima sintesi.

Infatti nessuno è mai entrato chiedendosi se facessi biologico, perché è chiaro, si evince.

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E lavoravi ancora “nel lusso” quando l’hai trovato?

Sì, perché io per un anno ho lavorato di giorno lì e la sera su questo progetto.

Come un figlio, che non sai che faccia avrà, ma dal momento che scegli per lui un nome già cominci a chiamarlo così prima che nasca.

Esatto.

E farlo nascere qui al Pratello, perché?

La mia idea era rimanere all’interno delle mura, perché ho sempre vissuto qua da quando mi sono trasferito a Bologna, e secondo me il centro storico è un territorio che va valorizzato. Poi mi piace molto il progetto di Senape Vivaio Urbano. Punto molto su di loro, mi piace la sinergia delle piante e del bio. Mi piace molto anche il Pratello perché è rimasto un po’ come un paese, un borgo. Ha ancora un respiro lento. Ci si conosce. È slow.

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Quindi un polo d’attrazione è stato Senape Vivavio Urbano.

Sì, senza dubbio. Sono entrato in contatto con Giovanni più di un anno fa, perché, quando ho iniziato a provare disagio lì dove lavoravo e a desiderare di cambiare, mi sarebbe piaciuto lavorare con la terra e all’inizio ho pensato alle piante. Un mio amico mi ha detto «ti faccio conoscere uno che con le piante addirittura ci parla e forse ti può dare qualche dritta». Così mi ha presentato Giovanni che già all’epoca aveva il progetto del vivaio urbano. Poi ci siamo rivisti che Senape aveva già aperto.

Con notevole successo da subito, fra l’altro.

Sì, è stata un’ottima idea, realizzata in un contesto straordinario. Hanno aperto in primavera, periodo della fioritua, con le giornate che si allungavano, il clima mite… E mi hanno attratto verso il Pratello che ho visto come un territorio lento, vicino, familiare. Mi piaceva l’idea della bottega, della gente che si conosce, delle chiacchiere, della fidelizzazione intesa come rapporto quotidiano che si viene a creare fra la gente.

Quindi capisci che dev’essere Pratello, trovi il locale accanto a Senape Vivaio Urbano e non hai dubbi, nonostante questa non sia una via di grande passaggio?

Il locale mi è piaciuto tantissimo. E poi avere loro accanto è perfetto.

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E in che cosa consiste la settimana di uno che vende verdura e prodotti bio e a chilometro zero a Bologna? Con quante cose devi avere a che fare?

Potrei risponderti che è una vita di rinunce e sacrifici (risata) ma non è così. Se fai una cosa del genere sai che dei sacrifici ci sono. Non ne faccio nemmeno un discorso economico, parlo proprio del tempo: ovviamente, se sei solo, devi fare tutto tu. Per me la difficoltà maggiore è stata reperire produttori che potessero aiutarmi in questo progetto e darmi i frutti del loro lavoro nei campi.

Parliamo un po’ di questo. Come sei arrivato ai tuoi fornitori? Perché sappiamo che spesso, pur in presenza di certificazioni, sono venute fuori delle truffe col bio, anche nella grande distribuzione che rischia grosso a veicolare prodotti “tarocchi”. Tu hai un piccolo negozio, la faccia che ci metti è la tua, il tuo nome è nel marchio stesso del negozio: come stabilisci il tuo rapporto fiduciario con i tuoi fornitori? Come li hai selezionati, come sei arrivato a loro?

È stato difficilissimo. Devi andare di persona sul posto, anche perché molti piccoli produttori non sanno nemmeno usare Internet, quindi virtualmente non esistono, non puoi neanche sapere che sono lì. Devi girare per mercatini, visitare i singoli posti—io vengo dall’Umbria e quindi, per quanto riguarda le leguminose che qui scarseggiano, ad esempio, mi rivolgo lì. Insomma, tanta ricerca sul campo, perché più un produttore è piccolo, più è difficile trovarlo.

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Quindi tu vai, senza nessuna presentazione né contatto pregresso, ti presenti al contadino.

O al piccolo trasformatore, e poi vai un po’ sulla fiducia, al di là delle certificazioni. Anche perché tu il campo lo vedi da vicino, la roba che viene prodotta la vedi con i tuoi occhi. E conosci di persona quelli da cui ti rifornisci, guardi negli occhi anche loro.

Insomma devi tenere tu tutti questi contatti con i produttori. E la tua merce è molto deperibile, perché è priva di conservanti ed è sana. Quindi, per non fare come il fast food che butta via il cibo, tu che fai?

Si va per tentativi. Io, piuttosto che buttare, regalo. Non sopporto lo spreco. Ho avuto l’imprinting di mia nonna che mi dava delle gran bacchettate se lasciavo la roba nel piatto, te l’ho detto!

A proposito di nonne, qual è l’età media della tua clientela?

Mi aspettavo molti più ragazzi. Invece ho soprattutto… (sorride) la tipica sdaura bolognese. La signora di una certa età.

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Se ci pensi, però, non è così strano: la signora prima era abituata al rapporto diretto col commerciante.

Che si è perso con l’abitudine alla grande distribuzione.

Forse c’è anche un motivo più strettamente economico: i giovani se lo possono permettere meno il bio.

Ma anche la signora stessa. Magari fa la spesa al supermercato e qua prende solo le cose per lei irrinunciabili.

Cos’è che vendi meglio?

Bella domanda. Il pane va molto bene perché si sente tantissimo la differenza, è molto buono. Anche l’ortofrutta va bene. E devo dire che, con le cassette, ho trovato un ottimo modo per ottimizzare richiesta e offerta ed evitare sprechi.

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Spieghiamo meglio. Qui in negozio l’ortofrutta è esposta, uno può entrare, prendere ciò che vuole e andar via. Oppure?

Oppure può, ogni settimana, scegliere da una lista di prodotti di stagione una cassetta (da 4 chili, 6 chili e mezzo o 9 chili) ordinandola on line tramite la pagina Facebook, o contattandomi al telefono, o direttamente qui in negozio. Il prezzo al chilo è fisso ed è pari, o addirittura inferiore, a quello della grande distribuzione.
Non c’è nessun abbonamento. Il servizio è molto semplice. E innovativo. Decidi ogni settimana se vuoi o non vuoi la cassetta.

E per le consegne, come funziona?

Le consegne al momento sono qui in negozio, il martedì, il mercoledì e il venerdì, dalle 17 alle 20.

E se dovessi immaginarti da qui a 5 anni? Come te lo immagini Biologna?

Cinque anni?! Io non riesco a immaginarmi nemmeno fra un mese! In realtà ho aperto convinto di non durare.

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Ah, ti sei buttato in questo ginepraio con un meraviglioso ottimismo!

Ma sì, più per sfida, perché ci credo. Però il momento è molto brutto, me ne rendo conto e lo vedo negli occhi della gente. Ora che non lavoro più in una boutique di lusso ho altre persone davanti. Gente che magari ci lascia il cuore sui prodotti che vorrebbe portarsi a casa e non può. Ovviamente io sono un commerciante, ma prima di tutto sono una persona e quindi non mi sognerei mai di fare pressing affinché una persona compri.

Parliamo di prezzi, allora. Perché il biologico è caro?

Il biologico costa, ma non è caro. Nel senso che il costo più elevato ha una giustificazione. Soprattutto nel caso del biologico che vendo io, che sono un piccolo commerciante. Non hai il potere contrattuale della grande distribuzione, che va nei campi e impone al contadino il prezzo, su cui poi fa il ricarico che vuole anche in base a quello che è il trend del momento. A me invece il contadino fa il suo prezzo, in base a quello che è l’andamento per lui: se un lepidottero gli decima il radicchio, i pochi radicchi che ha me li mette a 12 euro al chilo. Sta poi a me decidere se prenderli a quel prezzo lì o no. È innanzitutto un voler ripagare chi fa quel lavoro, la sua fatica, il suo svegliarsi alle 5 di mattina e andare nei campi con il gelo o col solleone per poterci offrire della roba buona.

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Come quella che ti offrono i tuoi fornitori.

La sfida è proprio quella: chi compra da me (ma anche in altre piccole realtà come la mia) o, meglio ancora, chi si affaccia direttamente dal contadino per un acquisto diretto, sta finanziando e sostenendo una giusta causa. Oltre ad alimentarsi meglio. Io sostengo il biologico da un punto di vista di tutela ambientale e tutela umana.

E quanti produttori affidabili ci sono in Emilia Romagna? Persone che lavorano la terra così bene come quelle che hai scelto tu? Rispetto al totale di terra coltivata che abbiamo detto essere tanta, in questa regione.

Considera che l’80% delle coltivazioni, in Emilia Romagna, è riservata al foraggio per gli animali. Noi mangiamo solo il 20% di quello che si coltiva qui.

Ma quindi, se uno vuole avere un rapporto con dei coltivatori affidabili, c’è scelta o è una ricerca difficile?

Non è facilissimo. Soprattutto perché, per assurdo, quelli che lo fanno non riescono a star dietro alle richieste. Io ho trovato diverse porte chiuse perché i produttori non potevano rifornire oltre un certo limite. Tieni presente che i campi coltivati a biologico non sono mai grossissimi appezzamenti, non hanno e non possono avere le dimensioni dell’agricoltura intensiva.

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Hai anche formaggi, vedo.

Sì, di Maurizio Casumaru di Modena, che ha le sue vacche e anche delle bufale, quindi fa anche misto bufala e fa dei prodotti molto buoni e, soprattutto, freschissimi. Mi consegnano il lunedì pomeriggio e la mozzarella la fanno il lunedì mattina.

Parliamo del vino, che è un discorso abbastanza complicato nel biologico.

Sì, è vero. Anche perché, più che vino biologico [che in realtà bisognerebbe chiamare vino naturale, ndr] mi è stato chiesto da molte persone il “vino vegano”. E lì ho dovuto capire di che cosa si stava parlando. Spesso ti ritrovi ad avere a che fare con persone che sono più informate di te.

O che pensano di esserlo…

Forse. Ma devi avere sempre l’umiltà di dire «va bene, se per te è importante, cerco di capire che cosa vuoi».

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Però la richiesta di vino vegano t’ha mandato in crisi, perché magari eri pronto a sentirti chiedere vino biologico o, meglio, naturale, e invece…

Sì, di vino vegano non avevo mai sentito parlare.

Ma cos’è questo benedetto vino vegano?

È un vino che nei processi di coltivazione della vite e in quelli di produzione del vino in cantina non entra mai in contatto con sostanze di origine animale. Oltre a quelle chimiche, che non sono ammesse nemmeno per il vino naturale, qui si fa un discorso sulla provenienza animale.

Quindi neanche il bianco d’uovo per le chiarificazioni, per dire?

Nessun tipo di proteina animale, anche se non rimangono tracce. Perché molti sono proprio infastiditi dall’idea che ci sia comunque stato quel passaggio lì.

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A parte la ricerca del Graal del vino vegano, sul vino naturale quali possono essere i problemi? Cosa devi considerare quando vuoi proporre al cliente tipo di Biologna un vino? È anche un discorso di prezzo, immagino. Non puoi avere dei vini particolarmente costosi, giusto?

Sì. E lì fai presto ad andare fuori mercato. Nel vino molto lo fa il nome. Molti “profani” scelgono il vino anche in base al nome. Ma con un po’ di fatica ho selezionato dei vini che mi sembrano giusti e spero che i miei clienti imparino ad apprezzarli.

E allora speriamo di brindare col tuo vino ai 5 anni di Biologna che adesso ti sembrano inarrivabili. Magari nel frattempo avrai trovato anche il famigerato vino vegano e ci sarà più gente ad alzare il calice con te.

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