Vincenzina davanti la fabbrica

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Percorrendo a passo d’uomo la strada davanti la Marzotto a Valdagno ho notato una donna ferma sul ciglio della strada, appoggiata al motorino, che guardava la fabbrica. Indossava un cappotto un po’ démodé e aveva un berretto di lana ed una sciarpa. Si vedevano solo gli occhi. Ho incrociato il suo sguardo, e come a spingere il disco nel mangiadischi nella mia testa è partito il refrain della canzone che mi ha accompagnato poi fino a casa.

In quel momento per me quella donna è diventata Vincenzina, chissà poi se davvero la sua vita era in qualche modo collegata alle vicende di quella fabbrica: pensionata, cassaintegrata, in mobilità, esodata o altro. Il pensiero è andato a tutte le Vincenzine che hanno lavorato in quella ed in altre fabbriche tessili: la difficoltà nei primi tempi di imparare ed accettare un lavoro che nella maggior parte dei casi è ripetitivo e monotono. Stiamo parlando di una generazione che entrava in fabbrica a 15 anni subito dopo la scuola dell’obbligo. La passione, la voglia di imparare e la prospettiva di crescere professionalmente per passare poi al reparto campionario: una specie di aristocrazia operaia, termine desueto che però esprime a perfezione il concetto.

Negli anni settanta i nuovi contratti che hanno migliorato le condizioni di lavoro, infine le cronache di questi ultimi venti anni che non parlano mai di nuove fabbriche ma sempre di espulsione di personale da quasi tutte le fabbriche in Italia, una specie di bonifica, di “derattizzazione”, dove le risorse umane andavano bene, però fuori dalla fabbrica, magari a tre/quattromila chilometri più a sud o più ad est. Nel frattempo la forsennata ricerca in giro per il mondo di altre Vincenzine più a buon mercato.

Vincenzina e la fabbrica è una delle più belle canzoni di Enzo Jannacci il testo, scritto con Beppe Viola, evoca atmosfere struggenti: se la conoscete vi consiglio di riascoltarla, e se non la conoscete questo è il momento buono per scoprirla.
La storia di quella Vincenzina davanti la fabbrica semi abbandonata mi ha fornito l’occasione di ricordare e di riflettere sulla storia di Valdagno, che coincide e si sovrappone alla storia del tessile, e più in generale alla storia della industrializzazione e del successivo declino industriale dell’Italia.

Valdagno è una piccola città in provincia di Vicenza che si snoda a cavallo di un torrente su una stretta Valle: a nord della cittadina dove la Valle si restringe, c’è la Fabbrica. La scrivo in maiuscolo perché in tutta la Valle se si parla della Fabbrica ci si capisce al volo e non si può sbagliare. Il nome della città prende il nome dal torrente che l’attraversa: l’Agno, e non e difficile capire che vista l’importanza della lana nell’economia della cittadina derivi da agnus. Nel 1836 la famiglia Marzotto iniziò la produzione laniera con una decina di persone che arrivarono a diverse migliaia negli anni di maggior espansione. Le condizioni per lo sviluppo c’erano tutte: la lana dai pascoli, l’acqua del torrente per la forza motrice dei telai e per i processi di tintura e finissaggio ed infine una forza lavoro di montanari duri e con pochi grilli per la testa.

Man mano che l’industria si sviluppava anche la cittadina di Valdagno cresceva, ma non con la bruttezza ed il disordine dei successivi boom economici che hanno devastato e arricchito l’Italia: Gaetano Marzotto (jr) attorno alle sue fabbriche voleva una città modello e costruì la Città sociale con una precisa organizzazione all’avanguardia per quei tempi: le case per gli operai, le ville per i dirigenti e una serie di servizi per i lavoratori e le loro famiglie: asili, scuole, ospedali, strutture per il tempo libero, piscine, teatro e altri luoghi di ritrovo.

Quella era un’epoca in cui le differenze sociali certamente esistevano, ma tra lo scalino più basso e quello più alto c’era una distanza ancora misurabile. Poi negli anni cinquanta e sessanta la Marzotto fu tra le prime aziende in Italia ad introdurre, affiancandola al tessile, la produzione di abbigliamento “in serie”, attività poi “spacchettata”, venduta o dismessa.

Lasciamo ora la città sociale e facciamo un salto di una decina di chilometri e di una ottantina di anni.
Sempre percorrendo quella Valle scendendo troviamo una fila di 9 capannoni, parzialmente completati, di cui non si capisce il senso (qui sopra la foto), dato che sono stati costruiti quando già un terzo degli edifici industriali della zona erano già o sfitti o abbandonati.

Guardando il tetto di pannelli solari ti viene un dubbio. Dubbio che ho chiarito grazie a Domenico, detto anche Momi Caena (per il suo vezzo di portare un orologio con la catenella nel taschino). Lui è un ex dipendente Marzotto, ora fa il rappresentante di filati. Nella vecchia fabbrica ci ha lasciato il cuore e due dita (nel telaio).
È amareggiato quando parla di Valdagno e della sua decadenza. Sulla Marzotto e sulla storia di Valdagno si trovano in rete una quantità infinita di documenti, però “la versione del Momi” è quella che mi è sembrata più… (sceglierete voi l’aggettivo nella prossima puntata) vera, reale, succulenta, ironica, tragica, fantascientifica.

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