L’abilità di un buon ufficio stampa è quella di farti mangiare una cacca convincendoti che sia una Sacher

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Dopo 25 minuti di tapis roulant il nostro uomo cominciava a vedere annebbiato, un po’ per il sudore che scendeva copioso ed un po’ per l’affaticamento. Non per l’età, non si sentiva certo un vecchietto come gli aveva ricordato in maniera velenosa quel serpente del suo collega.
La palestra era all’ultimo piano della sua casa con una grande vetrata che guardava i tetti di Milano. Avrebbe resistito ancora a correre ma il suono del telefono lo costrinse a fermare la corsa, erano le sette e trenta del mattino, e non capiva chi poteva essere che lo disturbava così presto.
Mark, il personal trainer, gli portò il telefono ma dopo le prime due parole cadde la linea.
Aspettando che il suo interlocutore si rifacesse vivo si guardò allo specchio: fisico asciutto non c’era un filo di pancia. Vecchietto sarà lui!

Si erano incrociati quell’estate entrando in un porto in Sicilia e non si erano salutati, avevano finto di non vedersi come fossero due persone qualsiasi che si incontrano con la Panda al semaforo. L’aveva osservato sul ponte, seppur da lontano: aveva un bel po’ di pancia e delle movenze da tracagnotto. Poi quella sciarpa sempre al collo per mitigare i dolori alla cervicale che non gli davano tregua.

Mentre passava mentalmente in rassegna quelle immagini il telefono riprese a squillare, rispose con un sì abbastanza stizzito e la voce dall’altra parte, una voce calda con un lieve accento sudamericano, cominciò con tono confidenziale: «Buon giorno sono Papa Francesco, come stai» e senza attendere una risposta continuò «perché non torni a produrre in Italia, perché non aiuti questo disgraziato Paese dove un giovane su due è senza lavoro…». Oltre allo stupore per la telefonata, scartata subito l’ipotesi dello scherzo, fu dapprima quasi stizzito per il fatto che tutti dovevano fare prediche a lui: perché non restauri il castello, e via.

Restò in silenzio ad ascoltare. Quello gli parlò del meridione, delle fabbriche in Puglia dove andava a produrre i pantaloni, dei calzaturifici nelle Marche, dei distretti industriali che ora erano diventati delle lande desolate, di gente che tirava al fine mese con la cassa integrazione speciale, dei laboratori del Veneto, delle stirerie, delle fabbriche di jeans. Restò sbalordito e in parte stupito, dalla conoscenza delle cose del suo interlocutore.
Lui non era praticante. Conservava però una sua religiosità un po’ particolare che forse era solo un riflesso dell’amore verso sua madre, che era una donna profondamente religiosa.

Il suo interlocutore chiuse la telefonata con un «tu puoi fare molto per gli altri, fratello, e non potrai certo vivere felice in un paese attanagliato dall’angoscia generata dalla disoccupazione». Promise che lo avrebbe richiamato tra un mese.
Pensò a questo punto cosa sarebbe successo se la cosa fosse uscita sui giornali: danno o vantaggio?

Ripensò alla riunione di tre anni prima. Lui, i due in gessato con le ginocchia fuori dai jeans, la mummia un po’ suonata, la biondona-patinata e la “coppia male assortita” (lui sanguigno lei altera) e poi lo stuolo di consulenti e di famigli che si erano portati dietro. La riunione venne convocata da lui stesso perché era in via di approvazione la famigerata legge sul Made in Italy, legge che nelle intenzioni doveva fornire migliori tutele sanitarie ed informazioni precise sull’origine dei prodotti al consumatore, e nel contempo (era ora) dare qualche tutela ai produttori.

La riunione, dopo qualche schermaglia che portava alla luce antiche gelosie e dissapori, ad un certo punto prese una direzione tutto sommato unitaria.
A questo punto un consulente veneto, furbo come una faina, il dr. Felice Gasparin, disse che da quel momento tutti i loro uffici stampa dovevano muoversi come una falange armata, con un campagna stampa che a farla breve doveva esprimere questi contenuti: chi guarda all’Italia è un provinciale, l’importante è che l’idea sia nata qua, noi siccome siamo bravi e giriamo il mondo vi portiamo a casa le eccellenze mondiali: l’India per l’arte del ricamo, il Perù per le lane pregiate, la Scozia per i preziosi tessuti. E avanti così.

«L’abilità di un buon ufficio stampa è quella di farti mangiare una cacca convincendoti che è una Sacher» concluse in maniera un po’ brutale per dare più forza ai concetti espressi.
Vedrete, intervenne in un secondo tempo, insistete con imponenti campagne stampa, proponete come testimonial il divo preferito per ogni target, il prodotto alla fine non conta, vale il mito, tra un po’ nessuno guarderà più dove e di cosa è fatto un abito! Poi, aggiunse, i giornalisti mica sono scemi, non si sputa sulle paccate di pubblicità che gli portiamo.

Gasparin era un guru (non come quello delle magliette) e purtroppo aveva ragione.
Il padrone di casa restò impassibile, un po’ per il suo carattere glaciale e un po’ perché i lifting ripetuti avevano ridotto di molto il repertorio delle sue espressioni. La mummia disse più tardi che il suo nome era talmente potente che di tutta la discussione non gli importava un granché. La Bionda patinata disse che bisognava trovare qualche santo per bloccare o quantomeno diluire l’impatto della legge. I due in jeans non sembravano molto interessati alla discussione e continuavano a giocare con il telefonino, però alla fine convennero che quella fosse la strada giusta.

Il giovane stagista che era arrivato al seguito del dottor Gasparin prendeva appunti e da quel momento incominciò a sentirsi un infiltrato: suo padre Ulisse, rappresentante di tessuti, la storia del tessile gliela raccontava un po’ diversa.
Ricordava ancora le valigie che Ulisse si portava appresso con la vecchia Polar, una con il campionario del ricamificio Fratelli Lombardi di Gallarate, azienda con più di 100 anni di storia che conservava nella storica sede un museo sulla storia del ricamo. Ricordava il maglificio della zia Ester e che da bambino si nascondeva con i cugini nelle scatole dei filati biellesi che sapevano di naftalina. Ricordava poi quando accompagnava il padre a visitare qualche cliente lontano, per fargli compagnia, le due pesanti valigie con il campionario del lanificio veronese fratelli Tiberghien e suo padre che aprendo la valigia esordiva: «quest’anno signori ci siamo rovinati, più di 700 combinazioni di scozzesi». Poi pensò sorridendo a che diavoleria si sarebbe inventato il suo capo per giustificare il fatto che le scarpe si facevano in Vietnam dove si usa andare scalzi nelle risaie.

Tornando al nostro uomo della palestra: si sedette sulla panca a riflettere, pensò al responsabile del prodotto (dicevano fosse il migliore sulla piazza quando era stato assunto) e alla sua ossessione a portare tutto all’estero, un po’ esagerata pensandoci adesso, forse determinata dai bonus legati al risparmio sugli acquisti che andavano a incrementare il suo già ricco stipendio. Si alzò di scatto dalla panca si guardò ancora allo specchio e pensò: oggi la giornata comincia proprio bene.

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