Colony – Contemporary Shop Culture

C’è il barbiere marocchino che anche se non c’è scritto da nessuna parte che è solo per uomini di fatto lo è e dopo le sei diventa più affollato di un bar durante l’happy hour e da fuori sembra una di quelle botteghe d’altri tempi dove vai a chiacchierare con gli amici più che farti fare barba e capelli. Qualche passo ed ecco l’alimentari indiano col proprietario che d’inverno si mette una sciarpa di lana avvolta intorno alla testa e sembra una contadina che va a raccogliere le erbe di campo nella neve. Fai due passi e c’è il gioielliere, che prima era indiano pure lui ma poi ha venduto ai cinesi, e in negozio non c’è mai anima viva e le luci, dentro, sono sempre soffuse. Il fotografo bolognese; il negozio che vendeva solo cose per il pattinaggio artistico ma che poi ha chiuso e da allora la serranda è sempre abbassata; l’agenzia immobiliare dove non entra nessuno da tempo e prezzi continuano a scendere. Ecco due frutta e verdura, pakistani entrambi, le vetrine talmente appiccicate che se prendi un casco di banane da uno poi può capitare che vai a pagare dall’altro, mentre pesche, cocomeri, meloni, melanzane e pomodori si sfidano a colpi di prezzi scritti su cartelli fluo—le zucchine costano meno da quello a sinistra, quello a destra ha l’uva in offerta—e non si sa perché uno è sempre pieno e l’altro no (e pure io ovviamente vado da quello sempre pieno).

Dopo una piccola enclave italiana—la fioraia alta e materna, la signora lampadata che assomiglia ad un’iguana ed ha un negozio di abbigliamento, il meccanico coi tatuaggi giapponesi e il suo socio dalle sopracciglia depilate, il bar con le bandiere del Bologna calcio appese ovunque ed un forza Bologna che ti accompagna fino a fuori visto che è stampato persino sullo scontrino—riecco un parrucchiere cinese, il pollo a la brasa peruviano, un emporio pure cinese dove trovi di tutto, dal rossetto a meno di 1 € alle valigie, e casomai decidessi di prenderne una ed andare verso la stazione incontrerai ucraine che vendono prodotti per capelli, bariste moldave e kebabbari egiziani, fruttivendoli cingalesi e lattaie rumene.

Se prendi un cartina e disegni un cerchio con un raggio di 500m passi dalla chinatown alla zona africana dove quando passi tutti ti salutano e ti dicono ehi bello, ciao bello. In mezzo vetrine slave, filippine, vietnamite, salvadoregne, il locale notturno cubano che poi ha chiuso ed ora l’hanno preso gli eritrei, col loro passo felpato e l’andatura diritta che noi scoloriti occidentali col telefono sempre in mano abbiamo perduto da tempo, curvi sugli impegni di uno stile di vita che ti succhia via il tempo e l’anima e non te li ridà indietro finché non decidi di scappare.

Certi giorni la Bolognina sembra Londra. E mentre il centro si riempie di non luoghi e di negozi che trovi sempre uguali in ogni città a portata di treno o di volo Ryan Air, le periferie acquistano un’identità liquida, fatta di lingue esotiche ed abiti colorati, di gente che non mette un cartello chiuso per indignazione nonostante ne avrebbe ben più diritto—di indignarsi—che due stilisti permalosi, visto quanto se ne sente, qua e ovunque, di razzismo strisciante.

Qualcuno dovrebbe documentarla questa città che si trasforma, fatta di vetrine con le scritte indecifrabili, di profumi che sanno di altri mondi e di idiomi che suonano come musiche di volta in volta dure, aspre, gracchianti e gutturali o morbide, dolci, lisce e civettuole.
Un graphic designer inglese (ovviamente per niente “purosangue”) l’ha fatto, con un bel libro—intitolato Colony—nato come tesi di laurea: un’indagine etnografica sui piccoli negozi indipendenti di Londra. Un libro che attraverso immagini, testi critici ed interviste parla di multiculturalità e migrazioni e lo fa proprio partendo dalle botteghe, dagli alimentari, dai negozi di liquori, dai frutta e verdura, dalle estetiste e dai parrucchieri…
Teniamocele strette le piccole botteghe—ciascuna diversa dall’altra, unica—qualsiasi lingua parlino.

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