Pitarque Robots

Nel bienno ’85/’86 una serie di coincidenze apparentemente fortuite contribuì alla nascita del nerd appassionato di fantascienza per come lo conosciamo oggi: uscirono a poca distanza l’uno dall’altro due caposaldi della cinematografia sci-fi per giovanissimi, Navigator ed Explorer, con quest’ultimo responsabile di un picco mai più raggiunto nel grafico delle richieste assillanti dei ragazzini di mezza nazione per avere da mamma e papà un Commodore 64, o simili, per provare a costruire un’astronave.

E mentre le tv private sfornavano cartoni di robot combattenti come non ci fosse un domani e le sale giochi si riempivano di arcade con terribili extraterrestri da sconfiggere tra un Calippo, un Fiordifragola e un “ciucciotto” alla Coca-Cola, la Edizioni EL pubblicò la prima serie di 5 librigame a tema fantascientifico mai uscita in Italia, Avventure stellari mentre la Mondadori diede alle stampe una fortunata (almeno in casa mia) serie di volumi scritti da Isaac Asimov insieme a sua moglie Janet, quella di Norby il robot stravagante, primo passo per il sottoscritto verso la scoperta, via Asimov, dell’enorme scaffale di fantascienza che, in casa mia, aveva il non indifferente optional di essere in realtà una “porta segreta” camuffata da libreria, aperta su una parte nascosta dello studio di mio padre e che di lì a poco divenne il mio laboratorio per esperimenti col microscopio (una lucertola fatta crudelmente a pezzi e messa in soluzione alcoolica dev’essere ancora da qualche parte in garage), nonché casa delle mie collezioni di minerali (e relativa enciclopedia a fascicoli), di monete straniere e di mappe stellari ritagliate da riviste ed incollate in un quadernino che prima o poi, immaginavo, mi sarebbe servito per orientarmi nel firmamento dopo che io ed il mio amico Andrea fossimo riusciti, nei nostri pomeriggi d’estate (e all’epoca ne eravamo più che convinti), a costruire con un vecchio triciclo, un carrettino di legno ed il mio Spectravideo attaccato ad un generatore che non riuscimmo mai a farci regalare, una nave spaziale perfettamente funzionante (pure noi vittime dell’effetto-Explorers).

Nel frattempo, a scuola, le maestre più illuminate raccontavano di un futuro non troppo lontano in cui i trasporti pubblici venivano sostituiti da nastri trasportatori e macchine volanti, il cibo liofilizzato come quello degli astronauti sarebbe diventato letteralmente il nostro pane quotidiano, mentre robot-domestici avrebbero pensato alle faccende di casa e svolto tutti i lavori pesanti, lasciando all’essere umano il tempo libero per progettare un mondo ancora migliore grazie ai computer. Visione confermata pure da un altro caposaldo editoriale dell’85, ancora una volta con lo zampino di una Mondadori pre-Berlusconi: Qui, Quo, Qua e i robot (su Instagram ho appena pubblicato qualche pagina tratta dal libro).

Un mondo meraviglioso. Sia quello che avremmo dovuto trovare superato lo scoglio di quel lontanissimo 2000. Sia quello da cui partivamo, che offriva a piene mani il diritto/dovere di sognare, praticato con costanza da tutte le fasce d’età, dai ragazzini ai nonni (avevo una vecchia zia che si entusiasmava quasi fino a commuoversi quando insieme costruivamo con i pezzi Lego incastrati tra le assi di una panca di legno a casa un’astronave e poi chiudevamo gli occhi e partivamo per lo spazio profondo).


Un mondo che ha plasmato le teste di almeno un paio di generazioni, tracciando un rassicurante confine tra chi stava fuori e chi dentro al sogno, quello della fantascienza e dei robot, dello spazio e dei computer con cui costruire il domani scrivendo comandi in linguaggio Basic. Passati gli anni, cambiati a volte i gusti, i figli di quell’era li riconosci ancora. E soprattutto si riconoscono tra loro, senza bisogno di strette di mano segrete o banali spillette e t-shirts da nerd.

E Javier Arcos Pitarque è uno di loro. Di noi. Che però a differenza di tanti non ha mai smesso di crederci, nel sogno. E che parallelamente ad un lavoro da graphic designer, a Madrid, in Spagna, da anni colleziona oggetti di scarto che poi assembla ricreando splendidi robot. Folgorato da una vecchia serie-tv, Lost in Space, Javier costruisce i suoi pezzi unici dall’aria nostalgicamente restrofuturistica con latte d’olio usate, vecchie radio, manometri e valvole, molle, attrezzi e persino libri.
Vere e proprie opere d’arte che agli over-30 sicuramente riaccenderanno vecchie fiamme di passione mai del tutto spente. Ma un giro nel suo laboratorio, o perlomeno sul suo sito Pitarque Robots lo farei fare pure ai più giovani. Non si sa mai.

Javier Arcos Pitarque accanto al robot più grande che ha realizzato finora

photos by Fernando Casarrubios
[via]

co-fondatore e direttore
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