Una ragazza alla (dis)pari, cap. 3: quella strana famiglia nell’East London

Dov’eravamo rimasti?
Ah già, la mia seconda (nonché prima qui a Londra) famiglia nei pressi di Mile End. Dovevo immaginarmelo, o almeno capirlo, che non sarebbero state delle settimane normali già dalla prima volta che incontrai lui, il padre di famiglia.
Un “colloquio” durato più o meno 5 minuti, frammentato da complimenti di vario genere e conclusosi con un «per me vai bene, puoi trasferirti anche domani».

Ma come? E tua moglie? E i bambini? Dove sono tutti? Posso capire con chi avrò a che fare prima di prendere le mie giganti e pesantissime valigie e farmi due ore di Tube che mi uccideranno lentamente? Niente, prendere o lasciare.

Sono tornata a casa, ho chiesto pareri ad amici e conoscenti di turno, pensato un po’ a quali sarebbero state le alternative (ovvero tornare in Italia dopo circa 15 giorni dalla mia partenza) e non del tutto convinta ho fatto le valigie, mi sono armata di positività ed incamminata verso Mile End.
Ho creduto davvero di resistere lì per circa 6 o 7 ore dopo aver scoperto la dimensione della mia camera. Dico solo che, per quanto era piccola, la porta non si riusciva ad aprire del tutto perché sbatteva contro il letto. Non c’era nient’altro oltre al letto. No, neanche un armadio, né un comodino, solo una finestra rotta.

Ho sopportato le avances del padre di famiglia per un giorno intero, del tipo: «cosa ne pensi delle relazioni extramatrimoniali? Sai, mia moglie è tutto il giorno fuori casa..» o «comunque se vuoi ci possiamo mettere d’accordo e posso darti dei soldi extra in cambio di qualcosa» (frase che, ovviamente, mi ha fatto perdere completamente la ragione).

Ho pure scoperto che mi sarei dovuta lavare con un secchio. Ebbene sì, perché nella loro vasca c’erano solo i due pomelli dell’acqua (ovviamente quella calda separata da quella fredda) e non potevi far altro che riempire un enorme secchio miscelando l’acqua e lavarti così, prendendoti a secchiate. Bei momenti.

In ogni caso ho deciso di provarci o, meglio, di resistere per capire come sarebbe andata.
Che sarà mai dover stare con due bambini per qualche ora al giorno? mi sono detta, non sapendo che, in realtà, le ore sarebbero state 24, dato che durante i primi giorni della prima settimana ho capito che la madre se ne usciva di casa ogni giorno alle cinque del mattino e tornava alle 9 di sera, mentre il padre aveva addirittura un’altra casa chissà dove.
Ottimo, insomma.

Vabbè, avrò almeno tutti i week end liberi, voglio sperare, giusto?
Macchè. Anche se i due simpatici genitori africani erano a casa durante il sabato e la domenica, i bambini appena si svegliavano (ovvero alle 6 e mezza del mattino) si lanciavano nel mio letto a mezza piazza urlando ininterrottamente le quattro parole che in quei 15 giorni avrò sentito almeno un miliardo di volte: I want to eat.

A qualsiasi ora del giorno e della notte volevano mangiare.
Niente e nessuno li fermava, né i cartoni, né i giochi, né le passeggiate al parco. Loro volevano mangiare sempre, sempre, sempre.

Credo di non aver mai provato tanta fatica come in quelle due settimane, ed infatti dopo aver capito che non avrei avuto neanche un ora libera durante il giorno, né uno straccio di vita sociale, ma soprattutto dopo aver vissuto in una cucina perennemente allagata e convissuto con un topo di dimensioni umane, mi sono decisa a riprendere tutti i miei (pochi) averi e tornarmene nel North London, soprattutto dopo essere venuta a sapere che un’amica di un’amica stava lasciando la casa fantastica di quella che, finalmente, era ed è tuttora la normalissima famiglia in cui vivo, dove ho un letto matrimoniale tutto per me, tempo libero a go-go e un equilibrio mentale che credevo di aver definitivamente perso, insieme ai documenti, quando sono arrivata a Londra in quella fredda notte di inizio febbraio.

LE PUNTATE PRECEDENTI:
cap.1: quanto è bello partir
cap.2: i miei primi dieci giorni londinesi

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