Come ho realizzato la mia prima fanzine autoprodotta

Lo so, avrei potuto prestare più attenzione mentre studiavo Gutenberg, ma il fascino di quell’uomo gobbo e barbuto non possiede, per quanto ad autorevolezza non lo batta ancora nessuno, nemmeno un briciolo di quel contemporaneo allure di trasgressione e soprattutto di indipendenza che appartiene a chi si sottrae alla meccanizzazione controllata dall’alto.
Sono uomini gli stampatori indipendenti, che potrebbero sopravvivere ad un’apocalisse zombie senza alcuna difficoltà, ne sono certa. Cowboys dell’editoria allo sbando che tornano a battere vecchi sentieri con tutto l’orgoglio di chi un’arte ce l’ha e in questo momento non è affatto intenzionato a metterla da parte, e con loro noi, le vecchie mucche da pascolare.

Io ho avuto stampatori in giro per ufficio per 10 anni, eppure nessuno di loro ha mai risvegliato in me istinti primari, o pensieri di frontiera, mi son sempre chiusa a riccio davanti a cose come RGB o Ciano-Magenta o alle loro cravatte troppo strette.
Ma i tempi son cambiati.

Perché poi, tranquillo, arriva un giorno e la mia passione per la carta evolve in un’ostinazione cannibale per La Stampa. Un’attrazione fatale per quella Terra di Mezzo che si colloca tra la nascita di un’illustrazione nella mente del dio-autore (per fare un esempio) e la sua riproduzione in circolo tra noi comuni mortali.

I casi sono due: o i tempi sono maturi per lo sbocciare della mia arte produttiva senza filtro e così davanti al primo che mi indica la strada parto al galoppo e vado, oppure più probabilmente son finita anche qui—schiava delle mode—nel mezzo di una rivolta anti-mass market in cui il valore è dato dalle poche copie, che sono appunto copie perché fatte a mano, possibilmente con procedimenti esotici di cui voglio carpire i segreti.
Detto questo non sarebbe mancato poco all’incontro con l’inevitabile tentazione giovanilista.
Oggi di gran presa nella metropoli bolognese: signori e signore, il workshop (di stampa).

Il mondo brulica di workshop: workshop di fanzine, workshop di taglio e cucito, senza contare il workshop di fotografia, tra poco il workshop di zuppa, e—perché no?—quello di tortellini, il workshop di lavoro a maglia (ne ho fatti due) o il citazionista workshop di cestini di vimmmini, ma anche il workshop di biscotti per cani, oppure il workshop di autocoscienza per animi confusi.

Oggi, epoca di specializzazione, tutti vorrebbero imparare a fare tutto. E il fenomeno non è figlio del Demonio, per carità. La curiosità è cosa buona e va nutrita e pasturata perché non si sa mai che doni possa portare con sé. E il sapere condiviso è la polvere da sparo per le rivoluzioni dei popoli oppressi. Quindi lunga vita ai workshop in senso lato. Ma è la ripetitività, l’indiscriminazione, l’ossessività formato Teletubbies, che assume contorni inquietanti (so quel che dico: una volta era il tempo dei “laboratori per bambini”, e tutti giù ad organizzare laboratori per bambini in ogni circostanza, anche alle fiere di tatuaggi. Oggi anche gli adulti vogliono i loro laboratori? E dunque alla manifestazione guai se non si aggancia il necessario momento-protesi DoItYourself).

Insomma, anche qui finiremmo a parlare di come si stanno ad occupare i soliti spazi vuoti se proseguissimo per questa strada. Ognuno dovrebbe pensare attentamente a quello che fa, che decide di insegnare, che decide di imparare, chiedendosene la ragione in profonda onestà. Ma poi pace libera tutti. Siamo in un paese libero e l’unica cosa che mi sento di dire è che la responsabilità porta con sé conseguenze. Niente di più.
In ogni modo con buona pace di Benjamin, non siamo più nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, ma nell’epoca della riproducibilità delle tecniche di riproducibilità, quasi. Ma lascio la presa e me la riservo per una prossima volta.

Lost in Bologna

Tornando di corsa al virus dilagante dell’autoproduzione, il festival Fruit (di cui si sta ampiamente parlando su queste “pagine”) mi offre la possibilità di essere per un giorno direttore e stampatore della mia fanzine personale? Già mi vedo, Karine Roitfeld della bassa in rivolta, e cavalcando l’onda dell’artigianale, decido di iscrivermi a Lost in Bologna, “giornata dedicata all’autoproduzione editoriale tramite processi analogici, come collage e stampa in fotocopia” [cit.], organizzata da BOLO e Branchie, già artefici di Lost in Milan.
Non so come mai, ma sento che sarà un momento di necessaria ribellione, a me stessa e alla mia pigrizia innanzitutto, alla mia estetica da scrapbooking americano, tutta fiorellini colorati e cornicette in stoffa a quadrettini.

Già ubriaca di futuro ma anche tormentata da incubi su taglierini mannari, prenoto per due (me e una compagna di redazione) e la mattina dopo alle 10, sotto una grigia pioggia battente, già molto in stile Berlino DDR, eccoci partire, armate di una seria macchina fotografica (la Compagna) e di un iPhone decisamente fuori tema (io), per procacciarci foto per le nostre autoproduzioni. Solo un dubbio nella mia testa: «Ma il tema?» chiedo. Son troppo strutturata, capisco. Il tema lo avremmo definito in corso d’opera. Il tempo stringe, “That’s the press baby, the press! And there’s nothing you can do about it.” Mi dice Humphrey Bogart nella testa, e vai di rotative. Qualcosa di eroico prende il posto della mia convinzione.

Così, “scende la pioggia ma che fa?”, io e la Compagna, ci infiliamo tra le stradette del centro e cominciamo a scattare, mentre il mio filo conduttore si fa sempre più chiaro: Scum Manifesto (la teoria ribelle) e cagnolini, qualcosa di facile reperimento per le vie. Quello della Compagna, il cibo.

Praticamente sapevamo di sparare sulla Croce Rossa da quanto sarebbe stato semplice. Facendo però i conti senza i canisti: perché i cani, con il brutto tempo, se ne stanno a casa al calduccio, mica all’umidità come noi giovani reporter della vita vera. Quindi quella che pregustavamo come una passeggiata, bagnata ma liscia come l’olio, si rivelò un safari a caccia di cani fotografabili (dopo aver educatamente adescato il padrone «Mi scusi, posso fotografare il suo cane, sa sto facendo un lavoro fotografico sui cani e blablabla») e di Tortine Porr***a (non cito il nome completo, trattasi però di merendina locale, tipica, che non poteva assolutamente mancare in una fanzine sul cibo).

Appena un po’ soddisfatte del nostro bottino rientriamo in orario e veniamo spronate a scegliere le 24 foto da stampare e usare. 24. Foto. Sono pochissime quando non hai un layout in testa. Io poi volevo fare un workshop di fanzine, mica imparare ad essere sintetica in una lezione. Ma è necessario, lo capisco e mi ci metto sudando copiosamente, malgrado la nostra stanzetta fosse un igloo pieno di spifferi malvagi, e soprattutto seguendo l’istinto, come mi veniva suggerito, fino al raggiungimento della selezione: 26, accettabile.

Intorno a me Ilaria, Martina, Gabrielle (avevamo anche un’ospite francese) e le altre si davano da fare. Sforbiciamenti come se fossimo tutte Edward Manidi-, effluvi di Coccoina, prove e controprove. Rapidamente Marco e Giuliana, BOLO e Branchie, capiscono con chi hanno a che fare, il mio bluff si esaurisce e mi trovo svelata per quella che sono. Appunto, una gattara incipriata molto poco simply chic, molto poco avantgarde, molto poco d’impatto (se per impatto si esclude lo sfinimento verbale). Pazienza, non sarà così che arriverò al Pulitzer.
Il tempo passa e ho compilato solo le prime due facciate. E nella prima ci ho messo un quadro di Ester Grossi.

Un'opera di Ester grossi in prima pagina

Ci avvisano che abbiamo 40 minuti proprio mentre io sto facendo le prime fotocopie ingrandite (e la macchina si blocca da sola, lo giuro, da sola, mano sul cuore). Le mie dita sembrano uscite da un’immersione nel toner (in realtà è l’effetto combinato della colla per carta unita al nero delle fotocopie, ti si appiccica alla punta delle falangi e ti trasforma nel perfetto tipografo o in una scarafaggia) e ho serie difficoltà a pensare a come procedere. Cosa attacco qui? E perché? E se questo lo taglio in diagonale? Ma perché non posso usare i pennarelli, maledizione? E nemmeno la porporina? Quando sei in difficoltà prendi un tocco di porporina e tutto si sistema, è un trucco vecchio come la mia insegnante d’asilo.

Tutte le ragazze, compresa la Compagna, plurilodata per la qualità delle sue foto, hanno finito. Arriva anche l’editor-in-chief di Frizzifrizzi a vedere come vanno le cose e mi dileggia pubblicamente e mi fotografa pure. Poi, nel momento della disperazione ecco, la pagina perfetta: i famosi cagnolini fotografati per strada tornano utili e in un impeto beatlesiano, canticchiando Lucy in the Sky with Diamonds, comincio ad attaccarli sopra ad una foto di Piazza Maggiore, nel cielo. Così, ripetendo orgogliosa tra me e me, Cagnolini nel Cielo, mi avvio a fotocopiare la matrice per produrre le mie copie.

Emozione. Riesco nell’impresa senza problemi, mentre Giuliana mi dice «Ecco, adesso puoi andare a rifilare, perché hai già ripulito la tua postazione di sicuro, vero Francesca?». Mi sento presa con le dita nel sacco, anche se avevo buttato via ogni pezzettino di carta, e di scotch e di colla, rispettando i reciproci contenitori. Ma si vede che ho la faccia da furbina.
E siamo così al momento più temuto, quello della della rifilatura delle pagine: così pur essendo perfettamente cosciente che “precisione” non è il mio secondo nome, che l’allineamento è un’operazione transitoria dato che tutte le pagine tendono al caos e che il taglierino è sempre stato per me fonte di umiliazione pubblica, mi sottopongo alla gogna. E anche qui flash di fotografi, tutti per i miei polpastrelli neri abbinati ad unghie laccate con April di Chanel.

Punti un po’ stortini, ma fan tenerezza, rifilo fuori centro, ma si sa che io ci vedo poco dove manca la luce. Le foto un po’ scurette, il senso vagamente criptico. E quella cosa che non so cos’è che mi ricorda i giornalini fotocopiati che facevo da piccola. Ma finalmente anche io ho mosso il mio primo vero riconosciuto baby-step da autoproducente. Tra me e il controllo dei media c’è sempre meno spazio vuoto. Anche se a riguardare Cagnolini nel Cielo da vicino confesso che non c’è molta differenza con Eraserhead, il nostro mensile universitario autogestito in fotocopie. Forse devo imparare le raffinatezze, forse mi mancano gli strumenti, ma le rotative le so già lanciare da sola. Tutto si prepara per il numero #1 di Cagnolini nel Cielo.

editorialista
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