Una ragazza alla (dis)pari, cap. 1: quanto è bello partir

Premessa: tutto quello che racconterò è vero (mio malgrado).
Arriva un momento per tutti, soprattutto negli ultimi tempi, in cui ti svegli una mattina (o sei incazzato perché nessuno risponde ai mille curriculum inviati) e dici: «Massì, vado a fare un’esperienza all’estero».

Non so davvero perché non abbia deciso di mettermi via un due/tremila euro e fare i classici sei passi dell’italiano medio che vuole abbandonare l’Italia, ovvero: trovare una casa, dare feste su feste con alcoolici scadenti, aprire un conto in banca, dare feste su feste con alcoolici scadenti, trovare un lavoro e, infine, dare feste su feste con alcoolici decenti (che finalmente ti puoi permettere).
Che poi, alla fine, tutte queste cose le ho fatte, ma passando per soprannaturali giorni che mi hanno fatto sentire come non mai la mancanza del mio piccolo paese in terra italiana.

In ogni caso ho vissuto anche io il fantastico momento di euforia misto a paura di quando riempi le valigie e ci metti dentro tuuuuuuuutto quello che hai nei vari armadi, cassetti, comodini, mensole, che «tanto mi vengono a prendere all’aeroporto» e «ovviamente devo portarmi tutto, non so per quanto starò via né quando tornerò» e «guarda che carine le bambine! E anche i genitori! Mi mandano sempre un sacco di mail su quanto sono felici che io vada lì!» e blablablabla.

Arriva il giorno della partenza. Dopo aver dormito 3 ore. Dopo un Bye Party che non ricorderò mai. In un hangover clamoroso che ho avuto paura di vomitare su Pats e Grats non appena li avessi visti lì, rossicci e sorridenti, all’aeroporto.
Ma in Irlanda, comunque, ci sono arrivata.

Agitata, contenta, preoccupata, nel mood del «e ora che cosa gli dico» e «vabbè qualcosa capirò», capendo solo in effetti che avevano ragione i miei mille amici giramondo quando mi dicevano che gli Irlandesi hanno un accento incomprensibile e io «ma no, dai, col tempo qualcosa capirò», capendo solo, dopo una settimana, che mi stavano cacciando.

Ma, dicevo, in Irlanda ci sono arrivata. Per la precisione in una frazione della frazione della frazione di Cork, che la prima (e probabilmente unica) fermata del bus era a 15 minuti a piedi. Nessun problema ovviamente, peccato che su quella strada non esistevano marciapiedi.

Tutto bene insomma, arriviamo in una villa mega-gigante, in aperta campagna, con vento a 100.000 nodi e «cazzo, la mia camera è clamorosa, c’è anche la cyclette» e «dai, apriamo una bottiglia per festeggiare il tuo arrivo» e «non ti preoccupare se le bambine all’inizio sono un po’ timide, è che loro non sono mai state con nessun altra persona a parte la mamma» e «sì, ce li hanno i nonni, ma anche se abitano qui di fianco non vengono mai a trovarle né stanno mai con loro» e altri discorsi che mi avrebbero dovuto far pensare che qualcosa non andava.

Passa il primo giorno, tra pane e tre strati di burro, tè con latte, torte fatte in casa, patate al forno, patate fritte, patate con salse, patate senza salse, frittate di patate e chi più ne ha (di patate) ne metta, e tutto va bene, Grats mi fa vedere dove sono i pannolini, dove sono le salviettine, dove sono le pappine, a che ora si mangia, si caga, si dorme e tutte le classiche cose che una brava mamma ti insegna quando lascia nelle tue mani due bambine di 1 e 3 anni.

Passa il secondo giorno, poi il terzo e il quarto. Tutti uguali al primo, a parte una lezione di spinning con Grats e altre quindici urlanti irlandesi che credo non mi scorderò per tutta la vita, dato che l’unica attività fisica che io abbia mai fatto è stata l’andare da casa alla metro in bicicletta (ma solo in primavera/estate).
«Prima o poi andrà a lavorare e mi lascerà con le bambine», penso io, «o per lo meno uscirà di casa un pomeriggio e mi farà stare con loro», mi dico.

Probabilmente, però, i pensieri miei e di Grats non erano gli stessi, visto che una piovigginante mattina di un giovedì di fine gennaio mi fa sedere e mi dice che «noi credevamo che tu fossi più grande, e l’agenzia ci aveva detto che avevi fatto per 3 anni la ragazza alla pari a Roma, quindi abbiamo bisogno di una persona con un po’ più di esperienza, ma se vuoi ti paghiamo il volo per tornare in Italia, e non ti preoccupare, puoi stare qui fin quando l’agenzia non ti trova un’altra famiglia».

Frase seguita, il giorno dopo, da «però sinceramente noi abbiamo bisogno di una persona il più presto possibile, e questa persona arriverà lunedì quindi abbiamo bisogno della tua camera, ma non preoccuparti, possiamo trovare una soluzione». Seguita infine da «però abbiamo visto che i voli nei prossimi giorni costano davvero tantissimo, ma domani ce ne è uno a poco, puoi prendere quello?». WTF????

Partiamo dal principio:
– Sì, ho pagato un’agenzia.
– Pagando un’agenzia ho dovuto compilare un modulo in cui ho scritto tutto quello che ho fatto negli ultimi 23 anni (e a Roma, va da sé, che oltre a studiare ho dato feste con alcoolici scadenti di cui sopra, perché ai tempi avevo ancora un po’ di cervello e mai mi sarei sognata di fare l’au-pair).
– Ah ok, posso rimanere, contatto subito l’agenzia e spiego il misfatto.
– Ma come arriva un’altra persona, vabbè se troviamo una soluzione non c’è problema.
– Scusa, mi state dicendo che me ne devo andare domani? Ma dove vado con due valigie più pesanti di me, da sola, nel freddo e nel gelo di questa città di merda?
Ok me ne vado. Ed è ovvio che mi pagate il volo, ma di tornare in Italia non ne ho la benché minima intenzione.

E fu così che dopo una settimana di nullafacenza, spesa da Tesco, bicchieri di vino, hot-whiskey, patate (ovviamente) e neanche un giorno di baby-sitteraggio, sono finita a Londra, con 400 pounds, depressione a mille e intenzionata a spendere tutti i miei averi in alcool, droga e rock’n’roll.

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