Hilfiger, la fiera, la modella, il coolhunter, il velo di Maya

Hilfiger Denim ha mandato ad una delle principali fiere di moda urbana del mondo, il celeberrimo Bread & Butter, due personaggi — chiamiamoli il lato A ed il lato B dell’apparire — seguendoli per 24 ore attraverso mini-camera installate nelle loro giacche e guardando dunque dal loro punto di vista una giornata-tipo in quello che può essere definito, per il mondo della moda, un evento-tipo e tutto quello che c’è attorno: il prima, il durante… Il dopo no. Quello, impresentabile territorio della stanchezza, delle maschere che s’allentano, delle tensioni che si accumulano o si sciolgono, viene tenuto fuori, lasciato all’immaginazione.

Certo, i due video sono dei riassunti. Non c’è davvero tutto. Il realismo è stato sacrificato sull’altare del tempo e della funzione. Si tratta dopo tutto di una pubblicità e pubblicare filmati di 24 ore sarebbe stato improponibile, sebbene una riduzione ad almeno un’ora e mezzo o due sarebbe stata interessante — ma a quel punto il progetto avrebbe preso tutt’altra piega e soprattutto un altro significato.

Proviamo a soffermarci per un attimo proprio sul significato. Ma prima guardati i video.

http://www.youtube.com/watch?v=5ZnSca_vsFc

http://www.youtube.com/watch?v=H72YuDHhghw

Qual è lo scopo dell’operazione di Hilfiger? Prendere, come già detto, due personaggi che riassumono altrettanti aspetti, l’uno dipendente e fisiologico all’altro, della categoria filosofica sulla quale si fonda l’intera cultura pop contemporanea: l’apparire (pure l’essere, nemico di mille battaglie fin dalla notte dei tempi, è oggi relegato, nella sfera privata come in quella pubblica, attraverso i molteplici strumenti che abbiamo a disposizione per rappresentare noi stessi al mondo, a puro strumento di propaganda della propria volontà di apparire).

La modella è pura apparenza, è un personaggio che vive costantemente sul palcoscenico di un teatro e recita il suo ruolo. Il fotografo/coolhunter conferma attraverso un apparecchio che registra la realtà materiale (per registrare quella interiore serve un talento innato e ben coltivato) l’apparenza di coloro che gravitano attorno ad un mondo che non è quello reale — una fiera, una settimana della moda, le vie dello shopping di lusso come pure le periferie “cool” di una città funzionano come, e talvolta assomigliano pure a, un teatro — interpretano di fatto un ruolo.

Apparenza + conferma/registrazione/diffusione dell’apparenza. Il terzo ingrediente ce lo mette il marchio, Hilfiger, ed è un ingrediente liquido, fluido, magmatico, nonché il più importante. E’ il velo di Maya di Schopenhauer, l’illusione che nasconde la realtà, Matrix, che nella società contemporanea è divenuto Dio (e dopotutto l’antico cristianesimo gnostico sosteneva proprio questo: che il Dio che ha creato l’uomo e l’universo fosse il realtà un sommo illusionista, e che gli uomini avrebbero dovuto trovare dentro di loro, attraverso la conoscienza e solo dopo aver realizzato di vivere in un’illusione, il modo per uscirne).
Hilfiger — ma avrebbe potuto essere chiunque altro — offre il teatro della rappresentazione, offre i costumi, stabilisce le parti, scrive il soggetto, fa il montaggio e manda in onda l’illusione.

I protagonisti, scelti con cura, si prestano al gioco perché di quel gioco, e in funzione di esso, vivono.
Daisy Lowe, modella inglese di celebri origini (madre ex-cantante ed ora fashion designer, padre ex-star degli anni ’90) dunque di fatto nata dentro al teatro della rappresentazione, ed Yvan Rodic, poco conosciuto con il suo nome e più noto come The Face Hunter, un blogger à la The Sartorialist, forse il più quotato dopo Mr. Scott Schuman.
Due famosi/non famosi, celebri solo nella cerchia degli addetti ai lavori (la regola della celebrità assoluta impone di chiedere conferma a padre/madre, meglio ancora nonno/nonna) dunque in quanto tali anche filtri di quello che sarà il pubblico.

Un pubblico di due tipi: quello dei simili (blogger, stylist, fashion designers, modelle/i) e quello degli “wannabe”, che sognano una giornata o meglio una vita così.
Tre, invece, i livelli di lettura:

– sopra il velo c’è quello che si vede, quello che appare;
– dietro al velo, ma guardando il velo, si arriva alla conclusione che fare la modella è stressante ed avere continuamente tele- e fotocamere puntate addosso, microfoni sbattuti in faccia, flash e luci non dev’essere poi così diverso che trovarsi, nudi, sul set di un film a luci rosse; e che fare il coolhunter significa beccarsi il freddo, magari un raffreddore, sicuramente i “va a quel paese” detti, mimati o pensati dai passanti che in quanto tali vorrebbero appunto passare e non rimanere bloccati lì aspettando che il fotografo scatti ed il fantoccio trovi dentro di sé la posa giusta;
– sotto al velo ci sono i fili che lo tengono su, le mani che sorreggono i fili, il buio delle quinte, invisibili proprio perché le luci puntano da tutt’altra parte: e questa è la vita vera, pure se per la maggior parte del tempo facciamo finta che non ci sia. O che riguardi qualcun altro.

co-fondatore e direttore
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