A Bilbao per i 15 anni del Guggenheim, tra Schiele, Oldenburg, pintxos e fiumi di kalimotxo

Sto vivendo in differita.
Una parte di me ha ancora il fondoschiena su una bici lanciata per le strade di una Berlino grigia e piovosa mentre un’altra se ne sta sotto un altrettanto grigio ed altrettanto piovoso cielo spagnolo a visitare Bilbao in occasione del quindicesimo anniversario del Guggenheim.

Con il Guggenheim di Frank Gehry, 15 anni fa Bilbao è entrata in una nuova fase culturale ed urbanistica

Bilbao la vedo per la prima volta da vicino. Giusto quindici anni fa, quando il celeberrimo museo progettato da Frank Gehry apriva i battenti, io e i miei genitori passavamo lì vicino in macchina. Eravamo indecisi se fermarci o meno, dopo una sosta a San Sebastián e chili di pintxos (la versione basca, e più “ricca”, delle tapas) consumati nei bar, diretti a est verso Santiago de Compostela per una versione ristretta — una sorta di riassunto formato automobile — del Camino de Santiago.

Fermi sul bordo della strada, la mano portata sopra agli occhi in posa da esploratori, avvistata la skyline industriale della città preferimmo proseguire oltre.
Errore madornale.

Guggenheim

Il Guggenheim

33.000 placche in titanio giocano con il fiume Nervión

A nostra discolpa c’è da dire che all’epoca Bilbao stava appena ri-nascendo. Dopo una lunga era dominata dall’industria pesante, la fine del XX secolo ha visto la città entrare in una fase di trasformazione continua. Un vero e proprio stravolgimento iniziato simbolicamente con una serie di infrastrutture – il depuratore, la tramvia e la metro – che hanno messo al centro della riqualificazione urbana i trasporti ed i servizi.

È stato il Guggenheim, però, a far entrare il capoluogo basco nella sua fase 2.0 – per usare un termine abusato in rete ma che riesce a dare l’idea dei cambiamenti, non solo urbanistici ma anche culturali, di uno tra i maggiori poli economici della Spagna.

Al concorso per la progettazione del Guggenheim hanno partecipato alcuni tra i più importanti studi di architettura del mondo. L’idea era quella di rivitalizzare la zona (l’area universitaria della città), Bilbao e più in generale tutta la regione. L’amministrazione voleva un simbolo della rinascita. E l’hanno avuto… con gli interessi: il Guggenheim è diventato una delle icone dell’architettura del ‘900 grazie all’unico progetto, tra quelli presentati, che è riuscito ad interfacciarsi e a rappresentare al meglio con una delle più importanti risorse di Bilbao, il fiume.

Guggenheim
Guggenheim

La vera star del museo è il museo stesso

Il disegno di Gehry – realizzato con il CAD, all’epoca era considerato uno strumento rivoluzionario – si basa su forme organiche e le linee, da certe angolazioni, ricordano quelle di una nave e si integrano perfettamente con il paesaggio circostante e con le anse del Nervión, che si riflette come un fiume di metallo sulle 33.000 placche in titanio che ricoprono l’edificio, mentre la pietra dei pavimenti e dei muri interni è stata scelta per la sua incredibile resistenza e per il suo naturale color ambra che rimanda agli edifici circostanti: per effetto della rifrazione, la luce che entra dall’incredibile lucernario posto a ben 25 metri di altezza dà all’ambiente una stranissima atmosfera soffusa, che ricorda i colori di una vecchia pellicola.

Nonostante tutti i capolavori contenuti da quel guscio lucente e arzigogolato – tra collezioni permanenti e mostre temporanee – lo percepisci subito che la vera star è il museo stesso. Il gioiello dell’architetto canadese attira a sé come una calamita tutti gli sguardi e gli obiettivi delle macchine fotografiche e al contempo assolve a quello che dovrebbe essere il fine ultimo dell’architettura ovvero – citando un altro architetto, Eliel Saarinen – «proteggere e migliorare la vita dell’uomo sulla terra, per appagare il suo credo nella nobiltà della sua esistenza».

Il Guggenheim di Bilbao è grandioso e discreto allo stesso tempo. Massiccio e leggerissimo. Riflesso di un’idea e di un tempo e specchio di una città e di un popolo. È forma e funzione. Contenitore e contenuto.

Le installazioni di Richard Serra

Basta entrare nell’atrio e muoversi tra quelle linee curve e quelle asimmetrie per capire quale sia l’effetto che fa ai visitatori, schiacciati e sollevati insieme da quell’enormità incredibilmente intima che li avvolge.

Effetto (se possibile) potenziato dalle istallazioni permanenti dello scultore americano Richard Serra nelle quali ti infili con animo curioso, percorrendo poi con ansia crescente i corridoi curvi che ti si stringono davanti e che ribaltano in pochi, lunghissimi secondi, la tua concezione di spazio e tempo, lasciandoti solo con te stesso in quello che immagini possa essere il tunnel che precede (metaforicamente) la morte o (fisicamente: l’utero) l’inizio della vita.

Le installazioni di Serra ribaltano la tua concezione di tempo e di spazio

Io e il mio gruppo di compagni di viaggio entriamo in rispettoso silenzio (con sfumature d’inquietitudine) e in fila indiana dentro ad una delle installazione di Serra, per uscirne qualche minuto dopo frastornati e rinchiusi ciascuno in un tunnel personalizzato di suggestioni filosofiche destinate ad evaporare (ma non del tutto) durante il corso della giornata, man mano che il riuscitissimo mix di Italia/Spagna/Francia quale siamo inizia a rompere il ghiaccio e da giovani multitaskers col naso all’insù tra le sale del museo – macchine fotografiche al collo, registratori in mano, penna nel taschino e quadernetto nella tasca posteriore – ci trasformiamo pian piano in un variopinto gruppo di amici in gita, mentre le guide spiegano in modalità multi-lingua le bellezze tutt’attorno, dando il La allo strano fenomeno che per tutto il giorno ha accompagnato ogni spostamento – nei momenti all’insegna della cultura e ancora di più in quelli serali all’insegna della “ricreazione” – ovvero la facoltà soprannaturale di riuscire a capire, pur non parlandola, la lingua di ognuno, neanche avessimo avuto il leggendario Babelfish ficcato nell’orecchio come nei romanzi di Douglas Adams…

Abbiamo forse un Babelfish nell’orecchio? Riusciamo a capire ogni lingua

Il lungo, brevissimo novecento di Schiele

Appena arriviamo alla mostra dedicata a Schiele, neanche fossimo pezzi di materia celeste sputati fuori dopo il Big Bang dell’apertura della porte dell’ascensore, ci disseminiamo tra le sale, ansiosi di riempire le schede delle nostre macchine fotografiche e le memorie dei nostri telefoni con quante più opere possibili.

Fossimo stati davvero in gita sarebbe arrivato un prof. con l’aria severa a riportarci all’ordine. Il compito spetta invece ai guardiani, che con aria altrettanto severa ci intimano di smettere, ci avvertono che le foto, lì, non si possono scattare, fanno sentire italiani indisciplinati pure i non italiani ed è solo grazie alle guide e alle organizzatrici del tour che la situazione si risolve. Grati per il loro intervento, torniamo all’ordine e da bravi bambini ci avviciniamo per ascoltare il resto della spiegazione.

Egon Schiele - "Weiblicher Akt" - 1917
Egon Schiele – “Weiblicher Akt” – 1917

Schiele in appena 28 anni di vita ha prodotto migliaia di opere

Col senno del poi e a nostra scusante, però, c’è da dire che forse sono le opere di Schiele stesse ad averci attaccato addosso l’ansia da prestazione, tanta è l’urgenza che emana da quei tratti decisi, da quei quadri più vicini all’arte grafica che alla pittura.

Egon Schiele, "Secession 49. Ausstellung Plakat", 1918
Egon Schiele, “Secession 49. Ausstellung Plakat”, 1918


L’artista viennese, dopotutto, ha avuto una carriera brevissima: appena dieci anni di attività, dal 1908 al 1918, per realizzare un numero incredibile di capolavori, tra disegni, acquerelli, gouaches. Più di 2500 lavori su carta ed oltre 330 dipinti, per non parlare del quasi illimitato numero di bozzetti.

Le opere presenti alla mostra, che si concluderà tra poche settimane (6 gennaio 2013), provengono dall’Albertina Museum di Vienna – altro luogo da non perdere, uno dei migliori del mondo per quanto riguarda i disegni, le stampe e le arti grafiche.

Nei suoi appena ventotto anni di vita Schiele ha rischiato di diventare ferroviere, prima di iscriversi all’Accademia, diventare uno studente modello e passare poi “al lato oscuro”, abbandonando le aule che puzzavano di classicismo (e di chiuso) per inseguire il presente, aderendo prima ai dettami della cosiddetta Secessione Viennese, su spinta di Klimt, e poi proseguendo in proprio, fondando il Neukunstgruppe, dedicandosi a tempo pieno ai nudi e alla rappresentazione delle pulsioni sessuali, intimamente intrecciate con l’idea di una morte sempre in agguato, sorpassando a sinistra i pallidi brividi erotici dell’Art Nouveau.

A diciotto anni Schiele ha l’onore di avere la sua prima personale – grazie all’aiuto di Klimt – dove presenta al pubblico tutta una serie di autoritratti, quasi una traduzione in (di)segni della psicanalisi che giusto qualche anno prima, proprio a Vienna, muoveva i suoi primi passi.

Egon Schiele - "Gerti vor ockerfarbener Draperie" - 1910
Egon Schiele – “Gerti vor ockerfarbener Draperie” – 1910

A ventidue anni viene arrestato per essersi approfittato di una ragazzina

A vent’anni conosce (c’è ancora lo zampino di Klimt) Wally Neuzil, ragazzina che diventerà prima sua modella e poi vera e propria musa per un artista che inizia a disegnare nudi femminili ritraendo sua sorella Gerti.

Il rapporto di Schiele con le donne è fruttuoso, in termini artistici, quanto complicato per quanto riguarda gli effetti sulla sua vita personale, soprattutto per la morale non certo libertina dell’epoca, e infatti a ventidue anni Schiele viene arrestato con l’accusa di aver rapito ed essersi approfittato di una quattordicenne, accusa (poi decaduta) rafforzata dal numero esorbitante di nudi di “giovanette” che le autorità trovano nel suo studio.

Mentre il successo inizia finalmente ad arrivare, l’artista conosce Edith Harms, figlia di un fabbro che ha l’officina di fronte al suo studio, che diventa sua moglie e la sua ultima (stavolta esclusiva) musa.
Nel 1918, dopo una breve parentesi militare durante la Grande Guerra, Schiele è uno dei più celebri pittori dell’epoca.
All’apice del successo, nell’ottobre di quell’anno, l’epidemia di spagnola che assale l’Europa si porta via sua moglie Edith e, dopo tre giorni, lo stesso Egon che di lì a poco – raggiunta negli ultimi tempi un’insperata serenità – sarebbe potuto diventare papà (Edith, infatti, era incinta di sei mesi quando morì).

Tra Topolino e la pistola a raggi: gli anni Sessanta di Claes Oldenburg

Mentre giriamo per vedere la mostra in anteprima troviamo lui, il Maestro, Oldenburg in persona

Ragazze interrotte, paternità interrotta (anzi, mai iniziata), macerie umane e di guerra mi lasciano – da genitore, da trentenne, soprattutto da uno che vive sulle future macerie di un nuovo secolo iniziato male – col groppone in gola e non meglio identificati pesi sulle spalle. Pesi che vanno a sciogliersi con la leggerezza delle bollicine in una bibita gassata quando entriamo nel mondo di Claes Oldenburg, per la mostra che il Guggenheim di Bilbao – grazie al supporto della BBVA, colosso bancario che ha sede proprio nei Paesi Baschi – dedica al grande maestro del pop, che per l’occasione ritroviamo in una delle sale a supervisionare l’allestimento, al momento della nostra visita ancora in progress.

Girare in mezzo ai lavori in corso e accorgersi che Mr.Oldenburg è vivo, lotta insieme a noi e soprattutto ci guarda mentre a nostra volta osserviamo attenti (cercando di assumere espressioni più intelligenti di quanto madre natura ci abbia forniti) dà un’aria ancora più surreale al peregrinare tra enormi fette di torta gonfiabili, patatine giganti e (volutamente) orride e plasticose riproduzioni degli iperglicemici peccati di gola del Grande Sogno Americano.

Trovare la salvezza attraverso l’ironia

La critica – attraverso l’ironia, spesso dissacrante – al consumismo è dopotutto uno grandi temi dell’artista svedese e naturalizzato americano, che con le sue colossali installazioni ha saputo rappresentare un Paese e le sue contraddizioni in un’epoca di febbrili trasformazioni culturali come gli anni ’60.

Classe 1929, Oldenburg si trasferisce a New York a trent’anni. Trova casa in un appartamento del Lower East Side, zona popolare per eccellenza dell’isola di Manhattan e quartiere ad altissima densità di immigrati: il luogo perfetto per osservare una società in movimento, che l’artista inizia a ritrarre attraverso una serie di sculture realizzate con pezzi di legno e di cartone trovati per strada.

Claes Oldenburg - "The Streets" - 1960
Claes Oldenburg – “The Streets” – 1960

Nel ’60 le sculture vengono messe in mostra (ricreata con cura negli spazi del Guggenheim, compreso un gigantesco homeless appoggiato al muro con il titolo di The Streets in una galleria della città, accompagnate da un’indemoniata performance e pubblicizzate da una serie di manifesti e volantini, a loro volta piccole opere d’arte.

Oldenburg si è inventato uno dei primi temporary store della storia

Oggi si parla in continuazione di temporary store, negozi pop-up e simili ma pochi sanno che già nel ’61 è stato proprio Oldenburg ad aprire uno dei primi negozi temporanei.

L’artista prese uno spazio nel suo quartiere e lo tenne aperto per due mesi, vendendo prodotti esattamente come in un negozio vero: versioni scultoree e deformate degli oggetti di uso quotidiano, dagli abiti al cibo, realizzate con materiali di recupero, metafore di una società industrializzata dedita al consumo sfrenato e al contempo un modo per mettere in discussione (già allora!) la mercificazione dell’arte nel sistema delle gallerie.

Imboccata la strada della critica ironica ma spietata all’artificiosità della “società di plastica” il passo successivo e quasi scontato non può che essere trasferirsi in quello che viene considerato, all’epoca come oggi, il centro assoluto del Sogno (fasullo) Americano: Los Angeles.

«L’umorismo», dice Oldenburg, «è l’unica arma di sopravvivenza»

Oldenburg arriva in California nel ’63 e dagli spazi sociali di The Streets e The Store si rifugia nell’esplorazione del privato, creando versioni gonfiabili o viniliche (le cosiddette soft sculptures) di oggetti comunissimi come l’interruttore della luce, il water, il telefono, il ventilatore, isolandoli dal contesto, aumentandone l’artificialità ed esaltandone l’aspetto comico e surreale.

«L’umorismo», dice Oldenburg, «è l’unica arma di sopravvivenza» e l’artista la usa in ogni sua opera, dai progetti per monumenti grandiosi da installare in città simbolo come Londra, L.A. o la sua New York (compreso un gigantesco rossetto eretto sulla base di un carro-armato, installato nel ’69 nell’Università di Yale: una forma di protesta contro la guerra in Vietnam e contemporaneamente una sonora e simbolica risata contro il divieto d’iscrizione alle donne, che a Yale, proprio fino al 1969, non venivano ammesse).

Viviamo nell’epoca delle ossessioni, del liberismo cannibale e dei fake

Qua lo dico e qua lo confermo: tra la rivoluzione grafica di Schiele, i suoi nudi, le sue modelle bambine, e la rivoluzione concettuale di Oldenburg sembrano passati ben più di 50 anni.

Se il mondo di Schiele riesci ad immaginarlo soltanto tra le pareti di un museo o nella finzione di qualche film biografico, quello di Oldenburg pare gettare la sua ombra fino al presente e oltre.
È un mondo, il suo, nel quale viviamo ancora immersi fino al collo e credo sia davvero riduttivo etichettare l’opera del vecchio Claes (come pure quella di Warhol) come pop-art, congelandola in tal modo in un periodo storico ben preciso, ammettendone sì le influenze sull’arte contemporanea a venire ma di fatto negandole, storicizzandola, la possibilità di parlare – oggi come ieri – del tempo che viviamo qui e ora.

Il tempo delle ossessioni, il tempo della cultura-spettacolo e del liberismo cannibale, dei fake e del nulla spacciato per trash, spacciato a sua volta per pop e consacrato come arte, in un doppio o triplo salto mortale che non ha neanche più bisogno di appoggi per lo slancio o di una base sulla quale atterrare ma continua a volteggiare, finché non lo vedi più o in ciclico orbitare attorno al sistema di volta in volta più semplice per far soldi.

E pare di sentirla tra le sale del museo la risata di Oldenburg (magari la sento davvero ed è di là che se la ride), che soffia via come una scoreggia beffarda dai suoi gonfiabili e vibra tra le pareti nere dei suoi due musei in miniatura, allestiti dentro al Guggenheim e dedicati ai suoi due più grandi feticci: la Ray Gun e Topolino. Due wunderkammer, due casseforti di sogni artificiali, riempite l’una di oggetti trovati, di ready-made della mitica pistola a raggi, l’altra di reperti di una civiltà, la nostra, che dissemina il suo cammino verso l’estinzione di coloratissimi oggetti usa-e-getta.

Il mondo è ancora lì

Dentro al Guggenheim capita di rado di guardare fuori. È sì una calamita per gli sguardi di chi passa ma pure un buco nero per quelli di chi sta dentro. E dopo un paio d’ore viene da chiedersi se al di là di quelle pareti di pietra e titanio ci sia ancora un mondo, se tutto sia rimasto o meno come prima.

Il Guggenheim come calamita e buco nero

Con gli occhi un po’ più smarriti di quando siamo entrati giriamo per Bilbao, che sotto alla pioggia sembra un’altra città ancora, costruita sulle macerie di un passato a cui però nessuno ha chiesto di andar via, e che continua a dialogare col presente dagli angoli delle strade, dalla cima delle colline, dalle rive del fiume e dai ponti, dalle prospettive che tolgono il fiato e dalle voci di chi passa.

Bilbao

È camminando per la città che comprendi il valore del progetto di Frank Gehry, che ha trasformato un museo nel simbolo della terra e della gente che lo ospita: massiccio e leggerissimo ho scritto poco fa, come quel brullo intreccio di colli tagliato in due dal Nervión, che prende per mano Bilbao e la porta fino all’oceano; come la granitica gentilezza e l’orgogliosa ospitalità dei suoi abitanti, che ti fermano per strada per raccontarti un quartiere, una via o una storia, prima di infilarsi in qualche bar o sidreria ad iniziare il rito dei pintxos.

#visitkalimotxo

Poi la serata prende la piega alcolica che tutti sotto sotto speravamo e ci aspettavamo prendesse. E l’hashtag concordato #visitbilbao si trasforma in #visitkalimotxo mentre come ragazzini in gita giriamo per locali (tantissimi, hai presente la via con la più alta densità di bar che hai mai visto in vita tua? Di più), ci applichiamo tenacemente in scambi culturali che sostanzialmente consistono in ricette di cocktail e tutta una serie di giochini da pub, quelli dove se perdi devi bere e più bevi e più perdi e così via. Da questo punto in poi le testimonianze fotografiche si diradano fino a cessare del tutto (ma me ne accorgo solo il giorno dopo) quindi dovrai accontentarti – e fidarti – della testimonianza scritta.

Vinaccio da due soldi e Coca-Cola: benvenuto Kalimotxo

Il famigerato Kalimotxo entra in scena quando siamo già pieni di pintxos e il video-maker che filma le nostre imprese abbandona il rioja che i nostri fegati allenati stanno buttando giù per ordinare un bicchierone formato fast-food di Coca-cola e vino rosso (vinaccio da due soldi, per tradizione).

Pare che nessuno sappia con certezza quale sia l’origine del Kalimotxo. Provo a chiederlo ma gli stessi spagnoli non ne hanno idea. Alcuni non lo conoscono neanche. Una delle guide, un ometto con l’aria di chi la sa lunga, con la voce e la pancia da maestro di vita, si lancia in un monologo.

Bilbao
Bilbao

Sapremo la verità sull’origine di quello spacca-fegato? No. La guida si lancia in metafore e racconti e tiene in pugno la platea ma in realtà non sa nemmeno lui chi l’abbia inventato. L’unica cosa certa è che arriva proprio dai Paesi Baschi e da lì si è diffuso a macchia di leopardo per il Paese, arrivando pure a sconfinare in Italia – sempre come bevanda di serie-C -col nome di calimocio o venerabile (ma non dalle mie parti, credo, visto che lo scopro ora da Wikipedia).
Si sa pure che in epoca franchista il Kalimotxo non esisteva ma sia praticamente spuntato fuori all’improvviso durante l’epoca di fermento creativo e festaiolo del post-franchismo.

Ad ogni modo il Kalimotxo è perfetto per i giochi da bar. Lancio di dadi, monetine che devono finire nei bicchierini pieni…

Alle due di notte sembriamo un tavolo di compagni di scuola che si rivedono dopo anni.

Alle tre ci ritroviamo in una discoteca vagamente tamarra dove tutti sono alla stesso tempo scatenati e tranquillissimi (addirittura non provano a passarti avanti al bancone del bar né provano gusto a calpestarti e neppure ti guardano male se per sbaglio inciampi e finisci praticamente con la faccia sul didietro della loro fidanzata: anni luce da noi) e dove una tizia ad un certo punto mi fa toc-toc sulla spalla e mi fa un lunghissimo discorso in spagnolo, che non afferro.
Allora sintetizza, in inglese: «mi sono innamorata di te».
«Seeee, ma nemmeno ti ho visto da quando sono qua» dico io in italiano. Poi sintetizzo, in inglese: «ho famiglia, sono vecchio».
Si accontenta di una sigaretta (rollata male), piccole perle di saggezza (in italiano, a quel punto sono ubriaco) e se ne va. E io capisco che è ora di abbandonare il kalimotxo.

tutte le foto sono dell’autore

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