Beyond Mountains, More Mountains

La settimana scorsa mia nonna è morta. 86 anni. Un tumore sconfitto. Una lunga lotta con il diabete che l’ha resa praticamente cieca. Un’ultima estate passata a rassicurare figli e nipoti che lei comunque stava bene, nonostante nessuno di noi riuscisse a farle buttar giù qualcosa da mangiare: lo stomaco non voleva più niente. Il saluto, quando me ne sono tornato a Bologna, aveva il sapore dell’ultimo. Poi il ricovero in ospedale, giusto per fare qualche analisi. Un’ecografia. Le flebo. Poi niente. Se n’è andata mentre ero in treno per andarla a trovare, dopo giorni passati a cercare di capire se tra i tutto a posto dei miei, al telefono, c’era qualcos’altro che non volevano o non riuscivano a dirmi.

Quando hanno chiuso la bara, ad accompagnarla sotto la pioggia c’erano fiumi di lacrime che scendevano dagli occhi scuri due generazioni di S. Sbarbati (Silvano, Sandro, Sergio, Serena, Simone, Simonetta, Stefano e Silvia: fantasiosi noi Sbarbati). La terza (mia figlia Sveva) ce la siamo risparmiata giusto perché troppo piccola per capirci qualcosa in mezzo a quel tripudio di pianti, abbracci stretti stretti, ricordi che ti pareva quasi di vedere materializzarsi a mezz’aria sopra alle teste di tutti.

La sera del funerale i singhiozzi si sono tramutati in una festa. Da una vita non ci si vedeva tutti insieme e tra bottiglie di vino e pizza last-minute è finita a risate: altra caratteristica di famiglia, oltre alla S, è l’esorcizzare il mal di vivere a suon di battute e storie di famiglia demenziali — ti ricordi quando siamo stati a Londra e tua madre si è versata addosso la Coca-Cola e ci guardavano tutti e lei aveva una felpa con su scritto“ I like country life?” hai capito? a Londra! una felpa in inglese che la etichettava come contadinotta — prima di precipitar nello sport preferito di noi marchigiani, parlare di malattie.

I giorni seguenti li abbiamo passati a casa di mia nonna, cercando di fare un po’ d’ordine in sessant’anni di roba accumulata, tra aggeggi inutili, forniture industriali di gomitoli di lana e cotone, sveglie, scatole di passamaneria, altre scatole piene di lenti d’ingrandimento ed occhiali, ben sei cassetti pieni di strofinacci, servizi da tavola buoni e servizi da tavola da battaglia, cumuli di medicine, rubriche gonfie di numeri di telefono scritti in corpo 36, un’intera collezione di vestaglie da ospedale mai usate (alla fine ne è bastata solo una), tavole di legno per fare la pasta fresca e ogni possibile tipologia di utensile da cucina (mia nonna amava tenersi aggiornata e alla fiera cittadina, ogni settembre, finché le gambe e gli occhi le hanno consentito di farlo, si teneva aggiornata acquistando l’ultimo gadget) tanto che alcuni non siamo riusciti a capire a cosa servissero.

E poi le foto. Una montagna. Insieme ai santini, alle lettere, alle cartoline e alle cartoline funebri (passata una certa età le ultime arrivano più spesso di quelle delle vacanze). Immersi nella confusione di una vita ammonticchiata qua e là per la casa — un figlio sul divano a contemplare il tempo che passa, due nipoti in cucina a selezionar padelle e a buttare cassette d’aglio e di patate, minestrine, pesche in decomposizione, un’altra nipote in camera da letto a stupirsi di quante lenzuola bianche potesse contenere un vecchio comò — di tanto in tanto spuntava fuori qualcuno che leggeva ad alta voce una lettera del nonno — Adelina, scrivi di più! — o il certificato del medico di un sanatorio di Roma che nel ’50 le prescriveva di non allattare al seno il suo primogenito. Le foto del mare, con la nonna magrissima come nessuno l’aveva mai vista. Foto di sconosciuti in posti sconosciuti. Dietro, dediche e nomi che di familiare non hanno più nemmeno il suono.

Storie. Che come da una macchina del tempo continuavano ad uscire. Dal ’33. Dal ’45. Dal ’51. E noi tutti ad immaginare. O meglio, provando a farlo, visto che l’ultima che poteva raccontarcele se n’è andata dietro ad un paio di occhiali, un bastone ed una testolina bianca e spettinata che anno dopo anno diventava più piccola e spenta.

Ieri sera mi hanno mandato questo video. Per me è lavoro. Che come mille altre volte s’intreccia con la vita (sono quello degli aneddoti personali ficcati un po’ dovunque e ci rido sopra pure le volte che ne parlo quando faccio lezione a qualche voglio-fare-il-blogger).

È lavoro che però stavolta s’è intrecciato un po’ più a fondo con la vita. E a vedere questi due, che nel trailer del corto che gli spagnoli di Canada hanno girato per 55DSL sfogliano e leggono vecchie cartoline degli anni ’40, come un cretino mi commuovo di fronte ad un set, a una costruzione della realtà, lontana anni luce da una arruffata, sfibrata, appannata congrega di parenti intenti a passarsi tra le mani oggetti chiedendosi se buttarli o meno, facendo almeno due volte il giro dei presenti prima di cestinare definitivamente qualcosa di apparentemente inutile ma che magari per qualcuno, magari uno solo…

Torniamo al trailer. Suggestionabile io o bravi loro? La prima è una certezza. La seconda una probabilità. Visto che già la scorsa stagione mi ero commosso (per ben altre ragioni) pure per un altro video di 55DSL, Roma, girato però da David Altobelli.
Ad ogni modo l’antefatto lo sai — e come al solito mi ha preso più spazio della ciccia che ormai è abitudine del sottoscritto usare come pretesto per parlare d’altro — dunque puoi benissimo capire da solo dove finisca l’utile ed inizi il dilettevole. Una volta appurato quale sia l’utile e quale il dilettevole.

Rimane qualche riga per la parte istituzionale, che mi dicono dovrei curare di più (ma sarebbe poi ancora Frizzifrizzi?): il trailer presenta Beyond Mountains, More Mountains, corto che come ho già detto è stato girato da Canada, gruppo di videomakers con base a Barcellona – non proprio gli ultimi arrivati visto che hanno già girato video per i Justice, gli Scissor Sisters, i Battles (quello vagamente NSFW del gelato) — per promuovere la collezione autunno/inverno 2012/13 di 55DSL.

È la storia di un ragazzo e una ragazza che girano l’Italia — in bus, in auto, in moto e pure a piedi — alla ricerca di uno stivale perduto (stivale, capita la metafora?) e verrà presentato giusto domani al Milano Film Festival.

Altra cosa da sapere: la colonna sonora è del leggendario “Riz” Ortolani (se non sei nato ieri ti ricorderai di Mondo Cane, de Il Sorpasso, de La Piovra; e suoi pezzi sono stati pure utilizzati da Tarantino per Kill Bill e Refn per Drive, anche se nella mia famiglia vanno ancora forte le citazioni da un altro film musicato da Ortolani: Girolimoni, il mostro di Roma).

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