Banal Chic Bizarre | FW2012/13

L’eccessiva, variopinta scena street di Tokyo siamo abituati a guardarla, da lontano, con occhi simili a quelli di un astrofilo che osserva al telescopio i luminosi oggetti (M-qualcosa o NGC-qualcosa) dello spazio profondo cercando di capirli “in profondità”. Ma senza mezzi sofisticati come radiotelescopi, senza il supporto teorico di complesse leggi fisiche e per via del punto di vista fisso ed immutabile (la terra gira ma una galassia o una nebulosa ci mostrano sempre la stessa faccia) quella che vede è soltanto la versione bidimensionale, piatta e stereotipata di una realtà che invece è ben più complessa. Che è poi, appunto, lo stesso problema che ci troviamo di fronte quando siamo alle prese con culture “esotiche” delle quali ci appare, seppur policroma e cangiante, solo la buccia. Guardati un articolo o un servizio a caso sulla scena di Harajuku, per fare un esempio, e sentirai utilizzare sempre gli stessi termini: tribù, tendenze, melting pot, manga, che è un po’ come dire “cattivo” di Hitler o definire Pasolini “un comunista che fa i film”.

Quando ti trovi di fronte a collezioni come l’ultima di Banal Chic Bizarre, marchio giapponese attivo dal 2002 e tra le stelle più brillanti dell’ammasso* Ura-Hara, devi dunque traslare le informazioni che il cervello riceve da quell’immagine piatta che ti trovi di fronte (letteralmente, in forma di foto, e concettualmente, in quanto strato superficiale di un background locale più che mai complicato da una storia ed una cultura, quelle giapponesi, che producono e vivono la cultura pop in maniera completamente diversa dalla nostra, contemporaneamente rielaborando, spesso estremizzando quanto arriva da oriente – il loro, quindi l’occidente) e rivedere completamente i metri di paragone.
Ne avrai bisogno soprattutto per quanto riguarda la collezione femminile, coraggiosamente allucinante e dedicata alla maternità (una delle designers è in dolce attesa), con volumi gonfiati a rappresentare il corpo che si trasforma, viniliche trasparenze solo apparentemente da cameriera sexy ma in realtà sinonimo della finestra sul mondo che il pancione rappresenta per il pupo, ma anche per quella maschile, decisamente più portabile ma altrettanto coraggiosa, una sorta di punto d’arrivo di uno streetwear che si guarda in dietro, alle origini, ma anche attorno, quasi pescando accidentalmente pezzi da guardaroba che più vari di così non potrebbero, dalla New York anni ’80 all’hippy anni ’70, dal workwear allo stile soviet, da

*Se immaginassimo il mondo della moda in base ai parametri dell’astronomia – idea che mutuo dalla galattica copertina di Una Nuova Moda Italiana di Maria Luisa Frisa – ci troveremmo di fronte a dei concetti interessanti e riusciremmo a spiegare, semplicemente visualizzandoli come simboli rubati ad un altro settore, tanti fenomeni e relazioni altrimenti complessi da analizzare. Nella mia visione astronomica della moda i marchi sono le stelle, che brillano di luce propria e possono essere minuscole o giganti, vivere a lungo o meno (da non confondere però con le comete, che sembrano stelle, e quella che pare luce propria è in realtà solo materia che brucia, consumandosi rapidamente per non lasciare traccia di sé, o andando a sciogliersi sulla superficie di qualche astro vero) e concludere la propria esistenza spegnendosi lentamente (per mancanza di materia; leggi: mercato, idee), con un botto immane (il fallimento, che rilascia nel cosmo la materia – i designers – che dentro all’enorme incubatrice di una nebulosa – l’esperienza, diventata una nuvola di vaporosi resti – si traformerà in nuove stelle) o – se se ne presentano le condizioni – collassando su se stesse e trasformandosi in spaventose anomalie nel tessuto spazio-temporale (i buchi neri, che portano sfiga ed è meglio, per le altre stelle, starne alla larga, ché da lì non se ne esce più…).
Gli ammassi, poi, sono le scene locali, splendenti insiemi di stelle che condividono uno stesso background – sicuramente geografico, spesso pure anagrafico – ed un bacino di esperienze comuni, mentre le costellazioni sono soltanto apparentemente vicine, dato che spostando il punto di vista le geometrie cambiano radicalmente, raggruppate per apparente affinità e soprattutto per comodità, utilizzandole come punti fissi in un’imprecisa e bidimensionale mappa dell’universo, dall’osservatore. Un osservatore che può essere la persona comune che solo di tanto in tanto alza gli occhi al cielo e si accontenta di sapere dov’è la stella polare (la sua: Chanel? Dolce & Gabbana? Abercrombie & Fitch?) e poco altro oppure lo scienziato che ne analizza ogni aspetto e costruisce una carriera sullo scoprire nuove stelle e sul riuscire a spiegare come si evolveranno. In mezzo ai due estremi un pullulare di umanità che va da chi si ostina a guardare solo gli astri più luminosi e a descriverli con pochi e banali concetti a chi si copre gli occhi davanti a tanta luce, cercando nel nero del cielo fievoli segnali da altri mondi.

Una teoria, la mia, che fa acqua da tutte le parti, ma se provi a giocarci un po’, prendendo una mappa stellare e scrivendoci sopra i nomi, ti accorgerai che in realtà le cose non sono poi così diverse: solo una, che salta subito all’occhio, è l’esatto contrario: ogni volta che guardi il cielo stellato, quello vero, stai guardando in realtà il passato dell’universo (più lontana la stella o la galassia, più indietro vai nel tempo); il cielo-moda invece arriva dal futuro e bastano le pagine di un giornale per andare avanti di sei mesi o un posto a una sfilata per saltare un anno più in là, mentre gli studiosi – quelli veri – con i loro sofisticati telescopi dell’ingegno, riescono ad arrivare ben oltre.

co-fondatore e direttore
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