Tavola Ouija - circa 1944

Il museo delle tavole Ouija

Tavola Ouija - circa 1944

Anni or sono, quando il sottoscritto e signora abitavano in una doppia con soppalco Ikea di terza mano in un bell’appartamento da sei, le forze dell’universo tramarono per coinvolgerci nella prima ed ultima seduta spiritica alla quale ci capitò di partecipare.
Le cose andarono così: sia io che Ethel lavoravamo nel sottoscala di un ufficio, intenti insieme ad altre future promesse della precarietà a scartabellare un database che puzzava d’ammuffito tanto quanto i pc sui quali girava, oltre a suddetto schedario a 8 bit, niente meno che il famigerato Windows 98 – più qualche copia di Windows Me a disposizione per pochi fortunati – allo scopo di importunare aziende prese a caso, su e giù una penisola già ben rappresentata dai malcelati dialetti ospitati dall’umida stanzetta, per appioppar loro “vantaggiosi” contratti con un Corriere Espresso.

c. ???

Fu lì, tra le altre cose – fra cui la mia pena del contrappasso: pacchi smarriti, indirizzi non trovati, ovunque vada ad abitare so già che un corriere non mi troverà – che ebbe i suoi “nobili” natali Frizzifrizzi e fu sempre lì che, in un caldo ed assolato pomeriggio di stanchezza collettiva (in pratica #lavorareconlentezza, di gran voga giusto ieri, ma all’epoca non avevamo ancora hashtag né followers a cui annunciare di star facendo poco più di un cazzo), ciascuno intento ad ingannare il tempo in viaggi senza destinazione nell’internet sterminato che s’apriva lento e a scatti dinnanzi ai nostri occhi. Davanti ai miei, più precisamente, un forum riservato ad adolescenti rimbambiti che tra opinioni sul rischio di gravidanza dovuto a sfioramento casuale d’un pene che si trovava a passar di là per caso e consigli su come provocarsi il vomito per dimagrire si scambiavano oscuri reportage di serate, perse a evocar fantasmi, finite con case possedute, compagne di classe pure possedute, ma carnalmente e dal demonio, coppie “scoppiate” perché lui diceva una cosa e lei – e qua c’è la mano del fantasma briccone – ne sentiva un’altra.

c. 1917

Mettici sopra storie equivalenti intercettate di nascosto nei bagni delle medie, anni di gotiche letture, una certa attrazione per i poteri oscuri della mente (se in classe con te c’era uno che aveva passato almeno un pomeriggio provando a spostare oggetti col pensiero, ecco, io ero quello là) e puoi capire quanta carne al fuoco ci fosse: impossibile non tentare un’approccio diretto alla questione. Intendo le sedute spiritiche, non le adolescenti “pregne”.
E allora giù a cercare informazioni, finché non se ne uscì la vicina di postazione con racconti di prima mano di piattini in moto solitario e di amiche a sentir voci nei secoli dei secoli dopo brusca e sconsigliabile interruzione del collegamento senza prima nemmeno una consultazione, uno straccio di exit-poll con lo spirito evocato, un cattivone della peggior specie ectoplasmica, capace di entrar negli incubi della malcapitata, notte dopo notte.
Racconti che poi ci portavamo a casa, rendendone partecipi i coinquilini – e dopotutto se non son questi i discorsi tra studenti… – ignari di trovarci di nuovo dinnanzi ad un seduto&spiritato, con una tazzina da caffè a sostituzione del piattino, tazzina che – raccontò lui – saltò addirittura via dal tavolo per schiantarglisi sul muro appena dietro perché l’impenetrabile quanto aerea entità, forse un ex-buttafuori, voleva appunto sbatterlo via dal quel convivio tra vivi e morti, lasciandolo solo e a testa bassa in un altra stanza, accompagnato da una coda di paglia lunga quanto l’elenco dei nomi del demonio mentre gli altri, sostituita la tazzina andata in cocci con una più scadente, proseguirono il loro allegro simposio.

c. 1893

Non ricordo poi a chi balenò poi l’idea, ma era nell’aria in nuvolette di morboso e “scientifico” interesse già da giorni finché, finalmente, arrivò il momento. Nel periodo in cui in casa giravano tante di quelle vibrazioni positive – tutti felici a passar serate insieme, a condividere di tutto, materia e spirito, vasetti di verdure sott’olio e pacche sulle spalle (e se hai mai abitato in una casa di studenti, sai bene quanto siano rare tali situazioni) – prendemmo la decisione e apparecchiammo il desco per la seduta.
Di tavole Ouija in casa neanche l’ombra (anche se a pensarci bene, in quello sgabuzzino in fondo, tra le valigie di vecchi coinquilini, materassi d’emergenza e pali per le tende, nessuno sapeva bene cosa ci fosse d’altro) e a dirla tutta non sapevamo nemmeno come pronunciarlo quell’inghippo di lettere – scopro ora che si tratta di semplice composizione tra due , oui e ja, anche se sul sito dell’Online Museum of Talking Boards, protagonista occulto di questo post, la storia sembra essere diversa – lettere che ci uscivan dalla bocca come fossero frustate, e alla fine optammo per una fatta in casa: pennarello nero su foglio bianco A3 – chissà poi chi ce l’aveva – a cui seguì una brevissima consultazione su cosa mettere e cosa tralasciare – i numeri, ad esempio, o le frecce: il più nerd tra noi propose pure il tasto ctrl, che non si poteva mai sapere… ma il consiglio è di guardarti prima queste e di non dimenticare mai il “tasto” per far uscire l’ospite invisibile, un bell’arrivederci che potrebbe incoraggiarlo a far ciao ciao con la gelida manina, invece d’aspettare te, confuso e in panico, incapace di chiedere il permesso come si deve.

Poggiata una tazzina a testa in giù, spente le luci, accese le candele e piazzata una videocamera a riprendere l’evento, dopo qualche risata isterica, indizio dei pianti che sarebbero arrivati a profusione, la tazzina si mosse sulla Q.

c. 1890
c. 1940
c. 1950
1996
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