vinoAlvino

Mi chiamo Alvino. Francesca Alvino. Con un nome così, appassionarsi di vino è stato quasi fatale. Un amico mi ha insegnato che il mio cognome è un attonimo, anche se, a voler essere precisi, l’attonimo ha a che fare con il lavoro che si svolge, mentre per me il vino è passione (il mio lavoro è scrivere sceneggiature).
Sì, sarei anche sommelier, ma il condizionale è d’obbligo: non esercito e non mi iscrivo più all’AIS da anni.
Sono entrata in clandestinità dopo aver annusato l’aria che tira lì dentro, ma tant’è… la sindrome di Groucho Marx, quel non voler essere accolti in nessun club che ti accetti come socio, ha i suoi vantaggi. Primo fra tutti, restare liberi. Parlare chiaro, dire appunto pane al pane e vino al vino – nel mio caso, vinoAlvino, nome che ho scelto per gli incontri che organizzo a Bologna.

Perché di vino si parla tanto, forse troppo, ma raramente in modo semplice e schietto. Col risultato che chi beve o si accoda alle mode del momento, o va a caso, o si inchina all’autorità dell’esperto di turno, sentendosi quasi in colpa per la propria ignoranza. Una sorta di vergogna selettiva: nessuno ha problemi ad ammettere di non avere la più pallida idea di come si faccia il parmigiano, per dire, o il culatello. Ma confessare di non saperne di vino è quasi tabù. E questo la dice lunga sullo status che il vino ha acquisito in Italia negli ultimi anni.

Ci piacerebbe tanto destreggiarci disinvolti nella scelta del calice al ristorante o della bottiglia in enoteca, ma una sola cosa capiamo, guardando quella sfilza di nomi che ci fa girare la testa ancor prima di bere: di non sapere nulla. O quasi. Questa consapevolezza socratica è senz’altro preferibile all’atteggiamento opposto, la pretesa di saperne tantissimo, che si traduce quasi sempre in snobismo verso le masse ignoranti.

Un consiglio: diffidate di chi si serve del vino per farvi sentire inferiori. Che sia l’enotecaro che vuole appiopparvi una bottiglia che vi sembra troppo cara, o l’oste che insiste per portarvi in tavola un vino e solo quello, o il sommelier del ristorante stellato che vi domina dall’alto della sua competenza, non abboccate: girate i tacchi e lasciateli soli con la loro spocchia. Cambiate enoteca, osteria, ristorante.

Perché il vino è prima di tutto un piacere, e deve dare piacere, non mettere in imbarazzo. Se il prezzo da pagare per bere bene, oltre a quel tot di euro che già costa, è essere trattati dall’alto in basso, meglio non bere. Anche perché l’onniscienza, in materia, è davvero appannaggio di pochi, gli altri fingono di saperne molto di più di quanto in realtà non sappiano.

E comunque rilassiamoci: i vini in Italia sono tanti, troppi per pretendere di conoscerli tutti. Sono già tantissimi i nomi dei vitigni, ossia delle varietà di uva da cui si ricava un determinato vino. Nomi diversi da regione a regione, perché siamo anche il paese dei campanili e sotto ognuno di quei campanili stai sicuro che un vino, almeno uno, lo fanno.

Ci si può divertire a immaginarli come personaggi di una commedia, certi vini, hanno nomi così strani che suggeriscono un carattere ben preciso: quelli che se la tirano, come il Bellone o la Bonarda. Quelli un po’ pedanti, come il Pignoletto. Per la gioia delle estetiste c’è il Peloso, mentre per i maschi sciovinisti c’è la Schiava Gentile, che non solo è schiava, ma è pure gentile (attenzione però che c’è anche la Schiava Grossa). Ci sono vini che si confondono con i commensali, come la Monica o il Giacomino, e altri che ti tirano fuori dai guai, come il Pagadebit e lo Straccia Cambiale. Alcuni, più che vini, sembrano punti di una mappa stradale, come l’Incrocio Terzi o l’Incrocio Manzoni 2.15. C’è l’Uva del Zio, l’Uva della Madonna e l’Uva di Troia (con la maiuscola, mi raccomando). Ci sono vini agli antipodi: il Nobile e il Primitivo, il Dolcetto e l’Asprinio, il Montù (“molta uva”) e l’Uva Rara, il Raboso e il Cortese. C’è poi tutto un bestiario: il Grillo, la Rondinella, il Caprone, il Somarello Rosso, l’Uva Cane, la Coda di Volpe.

Neanche uno di questi nomi è inventato. Alcuni sono sinonimi meno conosciuti di vitigni più noti con appellativi diversi. Altri invece di nome hanno solo quello lì, per quanto strambo possa sembrare. Nomi fantasiosi, di una fantasia radicata nel tempo e nello spazio che questi vini hanno attraversato. Perché questi vitigni, negli anni, a volte nei secoli, hanno cambiato nome a seconda delle regioni, dei villaggi, dei poderi in cui sono stati allevati.

In Italia, insomma, i vitigni sono molti. I vini un’infinità. E allora come orientarsi, come guadagnarsela quella dimestichezza che ci consente di scegliere cosa bere con un minimo di cognizione di causa? Tocca farci amicizia, col vino. Prenderci confidenza, guardarlo, annusarlo, assaporarlo. E ricordarsi che prima di tutto è un prodotto della terra, il frutto di un processo lungo e complesso.
Il vino è vivo. Ogni bottiglia è diversa da un’altra, anche dello stesso vino, anche dello stesso produttore, addirittura, a volte, della stessa annata. Magari una bottiglia sa di tappo, o è stata conservata male, o troppo a lungo, e allora addio piacere. Quindi conviene saperlo che cos’ho nel bicchiere. Cosa devo cercare, cosa posso scoprire, cosa non ci posso proprio trovare.

Tanto per cominciare, in un bicchiere di vino c’è soprattutto… acqua. L’80-85% (se vi va male anche il 90) è acqua. Un 10-15% è alcool (il volume lo vedete scritto in etichetta). E quella minuscola percentuale che resta, be’, è quella lì che fa la differenza. In quello spazio ristretto si gioca la gara fra le schiappe e i fuoriclasse.

E’ un’alchimia. Per ottenere la sintesi felice e quasi magica del buon vino si studia, si pazienta, si tribola, si suda, si prega. Fare il vino è un’arte, una scienza, una scommessa. E costa. Tempo, fatica e soldi.
Quindi scordiamoci di bere bene pagando una miseria – il famoso vino del contadino, quello bbono, il più delle volte è una ciofeca imbevibile. Ma leviamoci anche dalla testa che per bere bene bisogna spendere una fortuna.

Conviene scoprire due o tre cose di partenza, l’abc della degustazione, insomma, e dare un’occhiata dietro le quinte, in vigna e in cantina. Il resto è amore.

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