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… Nora sognava di trovarsi in cima a una casa, cioè al penultimo piano: era la camera di sua nonna, uno splendore rigonfio, in declino; eppure, per qualche ragione, la stanza, benché adorna di tutti gli averi della nonna, era desolata come il nido di un uccello che non tornerà.

Ritratti del prozio Llewellyn, morto nella Guerra Civile, pallidi tappeti scoloriti, tende che un’immobilità di anni faceva sembrare colonne, una fioccosa penna d’oca e un calamaio, l’inchiostro sbiadito nella punta.

Nora, ritta in piedi, guardava giù dentro la casa come da un palco sopraelevato, giù dove ora nel sogno era entrata Robin, sdraiata tra un gruppo di persone.
Nora si disse: “Il sogno non sarà sognato più”.

Un disco di luce, che sembrava venire da qualcuno o qualcosa dietro di lei che era ancora un’ombra, spandeva un fioco bagliore sul viso arrovesciato e immobile di Robin, che aveva un sorriso come di unico superstite, un sorriso che la paura aveva sposato all’osso.

Intorno a sé Nora udì, angosciata, la propria voce che diceva: “Vieni su, questa è la stanza della nonna”, pur sapendo che era impossibile, perché la stanza era tabù.

Più forte gridava, più il piano sottostante si allontanava, come se Robin e lei, in quello stremo, fossero un binocolo da teatro capovolto e rimpicciolissero nel loro doloroso amore; una velocità che fuggiva trascinandosi dietro le due estremità dell’edificio, dilaniandola.

Questo sogno, ora completo di tutte le sue parti, conservava la caratteristica iniziale di non essere mai stato la stanza della nonna.
Anche Nora non sembrava trovarsi lì di persona, né in grado di fare un invito.
Per provarlo aveva desiderato di posare le mani su qualche oggetto di quella stanza; il sogno non glielo aveva mai permesso.

Quella camera che non era mai stata della nonna, che era anzi l’ esatto contrario di qualsiasi stanza a lei nota in cui la nonna fosse mai passata o vissuta, era tuttavia satura della sua presenza perduta: sembrava che la nonna fosse continuamente sul punto di lasciarla.

L’architettura del sogno l’aveva ricostruita eterna e continua, nell’atto di fluir via in una lunga veste a pieghe soffici e pizzi sotto il mento, le increspature che componevano lo strascico mosse in una linea ascendente lungo la schiena e i fianchi, a disegnare una curva che non solo l’età cadente, ma la paura dell’età cadente esigeva.

A questa immagine della nonna che non era interamente la nonna del ricordo, s’accompagnava un’immagine della sua infanzia, un loro incontro casuale sull’angolo di casa – e la nonna, chissà perché, era vestita da uomo, con la bombetta e i baffi di nerofumo, ridicola e grassoccia nei pantaloni stretti e il panciotto rosso, le braccia spalancate, e diceva con un ammiccare amoroso: “Tesorino mio!”- la nonna “scarabocchiata” come è scarabocchiato un rudere preistorico, simbolo di una vita fuori della vita, e che ora appariva a Nora come qualcosa che veniva fatto a Robin, Robin sfigurata ed eternata dai geroglifici del sonno e del dolore.

Si svegliò e si rimise a camminare, e guardando fuori in giardino alla debole luce dell’alba vide un’ombra doppia cadere dalla statua, come se questa si stesse moltiplicando, e, pensando che forse era Robin, chiamò e non ebbe risposta…

da La Foresta della notte di Djuna Barnes

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