The book is on the table | I cento fratelli

I cento fratelli
di Donald Antrim
Minimum Fax 2011 | amazon

Non ci fosse stata la prefazione di Jonathan Franzen – dopotutto chi altro avrebbe potuto introdurre un libro intitolato I cento fratelli, ovvero una famiglia (nucleo centrale di ogni romanzo di Franzen), ma in potenza di 10? – il pensiero di esser capitato dentro ad racconto inedito di Poe ti avrebbe ben più che sfiorato, quanto piuttosto preso a schiaffi o a calci in faccia.
La storia, come quelle del Grande Maestro Alcolizzato del Terrore, ha i confini stretti: tutto in una sera, tutto in una casa, fuori dal tempo e dallo spazio, un atto unico da leggere d’un fiato – niente capitoli, in un crescendo claustrofobico di dinamiche “fraterne”, conflitti che s’innescano per gli stessi futili motivi che fanno esplodere le tragedie familiari di cui leggiamo sulle cronache dei giornali, inaspettati e toccanti momenti di affettuoso spirito cameratesco a creare alleanze e a disinnescar disastri che con la coda dell’occhio di lettore vedi dietro ad ogni angolo della grande biblioteca rossa, centro dell’azione per tutto il romanzo, nucleo focale di una casa che immagini immensa ma di cui Antrim non ti dà mappe, sfocandone i confini e mettendo come unico muro quello che separa i 100 dal mondo attorno, fuori da esso una non meglio precisata società di derelitti che accendono fuochi per riscaldarsi, ennesima minaccia latente (il mondo esterno, “the others” – e viene da pensare anche a Lost, la casa come l’isola).

E mentre per tutto il libro, senza aspettarti risposte, continui a chiederti delle cose pratiche – un solo padre (morto, ma che spunta di tanto in tanto come macchia sul soffitto, non vista, o ignorata, dai più) ma quante madri? E dove trovano il cibo? Quante stanze ha la casa? Se il più vecchio ha 93 anni, il più giovane quanti ne ha? E le sorelle? Ci sono? Dove sono? Che anno è? – pagina dopo pagina ti aspetti il colpo di scena, magari trascinato – Poe docet – proprio alla fine, mentre anche la più piccola interazione, dal prender da bere al sedersi a tavola (la scena in cui Antrim parla dello schema dei posti potrebbe benissimo uscire da Harry Potter, con la Rowlings che descrive la sala da pranzo di Hogwarts) carica di inquietitudine l’attesa di un finale inevitabile che attendi con rassegnato fatalismo, come i fratelli e come Doug, il narratore con il quale è davvero difficile non immedesimarti, in fuga nello Shiningiano labirinto degli scaffali di una biblioteca che è la tua testa e il tuo mondo, che cade a pezzi mentre sul fondo della tua retina di lettore qualcuno proietta le scene della futura (speriamo) trasposizione cinematografica di un romanzo che starebbe bene nelle mani di un Von Trier – che per quanto ne so è figlio unico – in (speriamo ancora) stato di grazia.

Il problema del prendersi da bere, da queste parti, è riuscire a farsi largo tra la calca al tavolo delle bevande. Forse è la familiarità del sangue a consentire comportamenti che la maggior parte di noi probabilmente reprimerebbe in altri, meno intimi contesti. Vale a dire spintoni, gomitate, piccoli pugni e analoghi gesti di aggressività.

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