The book is on the table | La leggenda della nave di carta

LA LEGGENDA DELLA NAVE DI CARTA
racconti di fantascienza giapponese
Fanucci 2002 | amazon

Avevo in mente di parlare d’altro per questa settimana ma per una volta – ché anche se questo non è il luogo, almeno non direttamente – l’attualità ha avuto meglio e l’allarme nucleare post-terremoto e post-tsunami, in Giappone, mi ha riportato con la testa a questo libro di racconti che ho letto anni fa, appena uscito, nei momenti di pausa tra un giro in pulmino, (decine di) dinosauri disegnati, (traballanti) astronavi fatte con i Lego e fiabe di leoni che parlano, principesse addormentate e cani a pois – per dovere di cronaca, nonostante chi mi conosce sappia del mio piede ancora affondato nel magma allucinato dell’infanzia, nel 2002 avevo già da tempo abbandonato i panni del Temone Bimbo (così mi chiamavo) per assumere quelli un po’ più (ma non troppo) seriosi di Simone Sbarbati e pulmino+dinosauri+astronavi+fiabe di cui parlo sono quelli dei mini-ometti e delle mini-damine con cui ho avuto l’onore di passare i miei mesi di servizio civile.
La leggenda della nave di carta, quindi, l’ho letto in mezzo al casino più totale, tra pianti e urla e “Simoneeeee mi fai il triceratopssss” ma credo sia proprio per questo che ancora mi ricordo di un libro di racconti che altrimenti si sarebbe sciolto via nel mare della vita a venire come la nave di carta che dà il titolo alla raccolta. Perché, lo dico subito in modo da creare aspettative ben più realistiche di quelle che ho avuto io dopo aver letto un recensione nonmiricordodove, questo è sì un libro interessante ma non un bel libro: oltre a fastidiosi refusi e nomi di autori storpiati il problema sono proprio le parole. Non scorrono. Non ti prendono neanche per sbaglio. E fili via liscio, sopra a storie di cui riesci solo ad intravedere la bellezza, ma che sembrano raccontate male (ho poi scoperto che in realtà tutti i racconti sono tradotti dall’edizione americana, quindi c’è di mezzo una doppia traduzione: una di troppo).

Interessante però sì. Perché, fondamentalmente, la fantascienza giapponese chi la conosce? Certo, abbiamo fior di manga ed anime, ma veri e propri romanzi e racconti in questa parte del mondo non sono mai arrivati.
E La leggenda della nave di carta (vorrebbe) colma(re) la lacuna proponendo una raccolta di short stories scritte tra gli anni ’60 e gli anni ’90 dai maestri della science-fiction (e non solo) del Sol Levante.
Nomi che probabilmente dicono qualcosa solo a nippomaniaci e veri appassionati di SF – Kobo Abe, Ryo Hanmura, Shinichi Hoshi, Takashi Ishikawa, Morio Kita, Sakyo Komatsu, Tensei Kono, Taku Maymura, Yasutaka Tsutsui, Tetsu Yano, Shono Yoriko, Sei Takekawa, Mariko Ohara – per storie che dalla prima all’ultima (ti) portano dentro (al)l’incubo atomico dell’unico paese al mondo che abbia mai subito un attacco nucleare. E scusate se è poco.
Incubo che a sua volta ti catapulta indietro a quando la paranoia la vivevamo anche noi, nei libri di scuola e nelle notizie dei tg pre-caduta del muro di Berlino. Bomba. Atomica. Radioattivo. Nube. Le tute gialle con il malefico simbolo dietro e i discorsi post-Chernobyl, quando anche mia nonna diceva fusione/fissione ma in realtà più in là della pentola a pressione, come immaginario catastrofico incombente, non riusciva ad immaginare.
Però tu te le immaginavi quelle robe invisibili che arrivavano in silenzio e ti uccidevano piano piano, ti sembrava quasi di sentire la colonna sonora da thriller, il brivido freddo – la radiazione si avvicina – tipo mille spettri malefici che vengono a prenderti.
Le mamme non compravano più insalata e pomodori e ti proibivano di andare a giocare in giardino. I settimanali pubblicavano le mappe con le previsioni sull’arrivo della nube radioattiva. La pioggia non faceva venire solo malinconia, ma il terrore. E ti sentivi in colpa anche solo a cadere, per sbaglio, sull’erba “contaminata” davanti a casa.

Quando ieri ho ripreso La leggenda della nave di carta per rileggerlo velocemente in vista di questa recensione, ho poi scoperto che alla fine del volume avevo segnato “pag.95”, ovvero quello che è forse il racconto più allucinante della raccolta, la storia di un tizio (occhio allo spoiler) che su passaparola di un altro tizio va nel retrobottega di un negozio dove clandestinamente della gente arrivata dal futuro ti permette di scegliere, in cambio di un bel mucchio di soldi, quello che sarà il tuo di futuro.
Puoi scegliere tra tre porte, che si affacciano su altrettanti mondi a venire.
Porta numero uno: futuro ipertecnologico ed avanzato.
Porta numero due: ordinatissima società neoclassica, versione fantascientifica dell’antica grecia.
Porta numero tre: un mondo inquinato e caotico, identico a quello odierno, con la certezza però che entro vent’anni un olocausto – sotto forma di un accecante lampo di luce nel cielo – si porterà via l’intera umanità.
Il tizio sceglie la due. Poi ci ripensa ed entra nella tre.
Alla fine del racconto, per farla breve, si scopre che è tutta una truffa ma che praticamente chiunque abbocchi all’amo dei finti uomini del futuro sceglie l’olocausto: la certezza di sapere come andrà a finire; poter tirare un ultimo, sofferto sospiro sbirciando morbosamente la fine del mondo. Inutile dire che tra i “clienti” c’erano anche politici, funzionari, uomini dell’esercito…

Subito dopo inizia un altro racconto. Triceratopo. E me ne torno per un po’ all’asilo. Almeno con la testa.

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