IL CASTELLO DI GHIACCIO
Tarjei Vesaas
Iperborea 2001 | Amazon
Preso non ricordo dove in un 2001 post-11-settembre. Letto in treno durante un ritorno a casa, interregionale Bologna-Falconara M.ma. Arrivo alle 18equalcosa. Faceva freddo e la carrozza si svuotava ad ogni fermata, con la temperatura che continuava a scendere ogni qual volta un’altra fonte di calore animale – parole, respiro, energia cinetica, maglioni di lana – scendeva alla sua stazione. Quando alzavo lo sguardo dal libro, c’era sempre qualcuno in meno rispetto alla volta prima.
Faceva freddo. E dopo aver letto il libro ancor di più.
Le ultime pagine lette con frenesia dopo esser passato per le ciminiere illuminate come grattacieli in miniatura della raffineria di Falconara. La digestione, quel momento in cui chiudi l’ultima pagina e rimani per un po’ a guardarla assimilando la storia nella sua interezza (leggere, dopotutto, è come mangiare una torta di cui però il cuoco/autore ti dà gli ingredienti un poco alla volta e il dolce completo, tutti i sapori, la consistenza, la raffinatezza o la sempicità, li hai solo quando non ne è rimasta neanche una briciola. E la volta dopo, se decidi di rileggerlo, vedrai che gli ingredienti non sono proprio gli stessi). La digestione, che di solito faccio in solitudine, con calma, è arrivata mentre camminavo tra i quattro gatti in stazione sotto le luci giallo-ospedale dei lampioni.
Quando non digerisci bene le atmosfere, i personaggi, quelli poi ti si ripropongono. Entrano dentro alle tue giornate nei sogni ad occhi aperti, nelle parentesi di astrazione, quando gli altri ti guardano chiedendosi ma mi sta ascoltando? e tu sei altrove, rimasto su un treno di ghiaccio, con i frames del film – che ti sei fatto in testa per tutta la durata del libro – che si susseguono.
Una strana fiaba, Il castello di ghiaccio, adatta a tempi strani e colonnine di mercurio che non vogliono saperne di salire, schiacciate giù da un peso invisibile.
Una strana fiaba, scritta da un Tarjei Vesaas che nella paranoia ci sguazzava (a proposito di sguazzare: Vesaas soffriva di depressione e manie suicide – sognava di affogar(si). E non viveva tra i boschi, ma in un paesino isolato della Norvegia, a 6m sul livello del mare, in una casa che la sua famiglia ha abitato per oltre 300 anni e dove lui è vissuto praticamente fino alla morte).
Una fiaba inquietante, morbosa, pruriginosa, ma scritta con delicatezza. Protagoniste due ragazzine di 11 anni e un meraviglioso castello di ghiaccio in continua mutazione come mente e corpo di chi non è più bambino ma non è ancora un adulto e un non detto che – da buoni scandinavi – copre come fosse un grosso plaid di lana quello che dopotutto credi di aver capito, ma vorresti con tutto il cuore che il caro Tarjei ti rivelasse, mentre lui – con dolcissima crudeltà – usa le parole come specchi: dentro ci vedi solo te stesso e i tuoi pensieri. E questo fa ancora più paura.
Se decidi di leggerlo ti vedrai volare sopra alle pagine con una velocità che non pensavi di avere, tanta la fretta di arrivare ad una fine che non conclude un bel niente, ad una digestione interrotta che ti ri-presenterà il conto di tanto in tanto.