Alle volte si sente parlare di un libro e nasce la voglia di leggerlo: si va in libreria, si cerca lo scaffale corretto e si scorrono tutti i dorsi con lo sguardo, uno per uno, fino a trovare ciò che si cerca. Prima di quel momento ce lo si era figurato in un certo modo, come una persona che si è sentita solo al telefono e mai vista, e capita che la sorpresa la faccia da padrona quando finalmente si è trovato il dorso giusto nella lunga squadriglia di libri che ci si para davanti.
Per me fu così quando cercai La valle dell’Eden di John Steinbeck. Mi trovai davanti un tomo di 686 pagine riccamente guarnite da caratteri microscopici e lo sconforto non fu indifferente. Conoscevo la storia a malapena e la voglia di acquistarlo nasceva più dall’aura associata al titolo, da quel film con James Dean – che per fortuna ancora non avevo visto.
Insomma, lo acquistai senza sapere nulla né della trama né dell’autore, né del film che ne ricavarono né nel messaggio che voleva esprimere: feci benissimo.
Andavo al liceo ed era ogni giorno in cartella, con il compito di essere acciaccato tra gli altri libri solo per essere poi letto nei cambi d’ora e nell’intervallo. Quelle letterine microscopiche che tanto mi avevano fatto maledire il tipografo, ora mi importavano poco: ciò di cui davvero avevo bisogno era sapere come andava avanti.
Non ci sono grossi misteri, anzi, non ce n’è praticamente nessuno, eppure questo lungo romanzo incatena.
Ci sono due famiglie, gli Hamilton e i Trask, le cui vicende si intrecciano, grazie ad una marea di personaggi diversi, per più di mezzo secolo. Una storia articolata ma pulita, complessa ma evidente, che una volta conclusa non fa meravigliare se spesso viene definita la storia più ambiziosa di Steinbeck.
Lì dentro c’è tutto, come in una Bibbia, e proprio dalla Bibbia Steinbeck pare attingere avidamente.
Il titolo del libro deriva da un versetto della Genesi riguardante Caino (Gen 4:16), i parallelismi tra Caino e Abele, Charles e Adam e Caleb e Aaron sono innumerevoli e il passo centrale del libro, quello che diventa poi l’ossatura della trama e del messaggio, parte proprio da una frase della Bibbia.
Il cuoco cantonese Lee (personaggio chiave eliminato nell’orrenda trasposizione cinematografica) si accorge che la traduzione inglese di un passo della Bibbia differisce da quella americana e indaga per scoprire quale sia il significato vero. Scopre che la chiave di volta di quella frase è la parola תמשל (timshell) che non significa «tu riuscirai a sconfiggere il male» della traduzione di Re Giacomo, che suona come una promessa, né il «tu sconfiggerai il male» della traduzione americana, più simile ad un ordine. No, timshell ha un valore più profondo: tu puoi sconfiggere il male. E su questo si basa il romanzo, che è poi ciò su cui la stessa vita poggia i piedi, sulla nostra facoltà di scegliere tra giusto e sbagliato, buono e cattivo.
Se ancora non avete visto James Dean interpretare Caleb, siete ancora in tempo per godervi appieno un’opera splendida; ma se già avete visto il film, non temete, avrete grosse sorprese, soprattutto nel finale.
Steinbeck è riuscito a trovare la conclusione perfetta, quella che se da un lato lascia un po’ di amaro in bocca ed una fastidiosa sensazione di incompiuto, dall’altro dà senso a tutte le pagine che l’hanno preceduta, rendendo ancora più forte e vibrante la lezione impartita. Che è proprio ciò che ogni buon libro dovrebbe saper fare.