Miami, Formentera e… la Sarega

D’estate se riuscivo a sfuggire alla vigilanza delle donne di casa scappavo dalla siesta in modo acrobatico (grondaia, scala esterna o passo del leopardo) e andavo in missione con i miei amici: obiettivo “Sarega Beach”.

La Sarega era un canale costruito dagli agrari locali durante le bonifiche del secolo scorso, per drenare terreni acquitrinosi d’inverno e per portare acqua alle loro campagne arse durante le terribili estati aride della bassa. Dai Sarego Alighieri, imparentati con il sommo poeta, aveva preso nome il canale che irrigava gli sterminati campi di mais, angurie e meloni.
La Sarega era il nostro lido.

Per arrivarci si passava dalla Via Casetta, dove l’unico rumore—negli assolati pomeriggi d’estate, con le corti piene di oleandri ma senza i baobab—era un grr grr quasi indistinto che arriva da entrambi i lati della strada, da una parte le cicale nei fossi e dall’altra le magliaie dietro le finestre, con le loro macchine a mano. Producevano dall’alba al tramonto lo smacchiato per i committenti di Carpi.

Carpi negli anni sessanta era diventata la capitale della maglieria, dopo che il fiorente artigianato locale dei cappelli di paglia era sparito nel dopoguerra, vuoi per il cambio di moda e il disuso dei capelli di paglia o per la meccanizzazione dei processi agricoli.

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Tornando ai bagni sulla Sarega, era abitudine dopo essersi rinfrescati e aver assistito alle spericolate esibizioni di Maciste, che saltava dal ponte stradale con doppia e tripla piroetta, rifornirsi di ghiaccioli da Leone Tutù, così soprannominato per la buffa trombetta che utilizzava per preannunciare l’arrivo del suo carrettino. Io poi, prima di tornare a casa, mi fermavo da Elsa, una mia amica magliaia, e per un po’ stavo lì a fargli compagnia e nel frattempo la aiutavo a tenere d’occhio le macchine, che trasformavano le matasse in rocche.

Elsa, la mia amica magliaia, era una gran lavoratrice, e negli anni, nonostante qualche episodio poco fortunato, aveva fatto dei passi importanti. L’episodio poco fortunato era stato quello di farsi ingravidare da Andrew, un soldato della vicina base americana. Poi lui era andato in Vietnam e le sue tracce si sono perse tra Hanoi e il Minnesota. A lei era rimasto il vispo frugoletto color caffèlatte, le cataste di filati e le rate delle macchine.
Ma le non si era persa d’animo, grazie anche all’aiuto e alla disponibilità dei suoi genitori. Piano piano era arrivata a tre macchine, poi il salto: Il capannone di blocchi di cemento con il tetto in Eternit e i telai Bentley.

Facciamo un salto di 45 anni: Elsa, che nel frattempo aveva messo su famiglia con Marco, l’autista che gli portava il lavoro da Carpi, negli anni era riuscita a creare una azienda invidiabile per le dotazioni tecnologiche e per la competenza delle maestranze. Si occupava di private label, nel senso che produceva per alcune pregiate ditte del Made in Italy la collezione di maglieria. I clienti arrivavano e non occorreva cercarli. La competenza, la serietà e la variegata gamma di macchine non trovava pari concorrenza nei pochi maglifici rimasti.

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In questi giorni un comune amico mi ha riferito che forse ha portato i libri in tribunale. Sì perché il suo principale cliente di private label, quello con la villa a Formentera, il pied-à-terre a Miami e lo show room a Milano di quattro piani di morbidezza, non l’ha pagata.

Ce la siam presa nei precedenti interventi con i delocalizzatori assattanati, coi cinesi senza regole e adesso ce la prendiamo con gli stilisti italiani PBM, cioè Pieni di Boria e di Merda.
Cerchiamo, affinché questa non diventi una invettiva personale contro il cattivo pagatore di Maria, di definire un po’ la categoria, con alcune inevitabili semplificazioni.

Gruppi: di solito viaggiano in coppia. Lui, o rasato o Jesus Christ Superstar, non sono gradite le vie di mezzo. Lei con una criniera biondo crespo, labbra a papera e tette coppa maxibon. Vestono prevalentemente di nero con tatuaggi e scarpe dalle fogge variegate. Hanno uno sciarpone d’estate e delle scollature vertiginose in inverno, anche gli stivali sono ben accolti con la calura di luglio.

Auto: Audi nera o suv, comunque sempre neri, per i più arditi del Carpigiano non si disdegna l’Hummer.

Casa: a Formentera, Los Angeles o Miami, che fa tanto vado la perché bisogna esserci.

Tic: nelle fiere visionano i campionari di tessuti sempre nello stesso tavolo per superstizione, piantando delle grane imbarazzanti per trovarlo libero.

Ufficio stampa: tipo Barone di Münchhausen, spara incrementi, nuovi punti vendita in giro per il mondo, nuove linee e successi uno dietro l’altro. Una volta ho osservato un grafico ed era palesemente falsificato (l’asse delle x aveva degli evidenti conflitti con quello delle y).

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Risultati: quando va bene restano in piedi, i più fortunati vendono a un fondo, per gli altri c’è il destino di crear danni ai dipendenti e ai fornitori facendo alla fine una marea di danni a tutti!
Danni non solo economici ma vere e proprie voragini oltre che economiche dove si disperdono talenti, conoscenze, macchine storie e archivi.

La distruzione del Made in Italy, una macchina ben funzionante e collaudata è un assassinio che non può essere opera di un solo killer, ma di una associazione a delinquere, dove ognuno ha fatto la sua parte, e purtroppo l’omonimo Stato ha fatto il palo.

Il destino dei nostri stilisti, dopo un concordato che li libera dai debiti come un clistere o una lavanda gastrica, a volte si rimette in moto: trovano qualcuno che si fida di loro, sempre con la logica della mamma dei grulli.

Il destino delle varie Elsa è un destino di amarezza, le macchine diventano ferro vecchio, e per chi ha dato tanto c’è davanti una strada che va verso la sfiducia e la chiusura in se stessi.

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