“A' Piscarìa”, il mercato del pesce di Catania (foto: Frizzifrizzi)

Da Catania a Palermo sulle orme di FUD

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Ci sono alcune cose per le quali, quando qualcuno mi conosce “nel mondo reale”, di solito vengo guardato con un’espressione che va dall’incredulità alla compassione al disgusto—più spesso una miscela di tutte e tre—e sono:
1. non aver la macchina («e nemmeno la patente, se è per questo», aggiungo sempre con un carico di orgoglio se dall’altra parte già strabuzzano gli occhi);
2. non stirare i vestiti («è questione di stenderli bene al sole o di piegarli al momento giusto appena escono dall’asciugatrice»: l’importante è crederci fortissimamente mentre lo si dice)
3. non essere mai stato in Sicilia.

Quest’ultima, però, ora posso depennarla dall’elenco
patente
stirare
Sicilia

(ecco qua, fatto).

Posso depennarla, dicevo, visto che un paio di settimane fa, grazie a FUD sono finalmente riuscito a fare il salto oltre lo stretto, a visitare Catania e Palermo e, anche se sono rimasto per meno di una manciata di giorni, a innamorarmi perdutamente, prendendo addirittura in considerazione l’idea di piantare baracca e burattini, vendere Frizzifrizzi, pigliare su la famiglia e trasferirmi.

Non è che lo dico tanto per dire, come fanno gli attori e i cantanti stranieri quando li intervistano in qualche programma italiano perché sono in tour o presentano un film e dicono che l’Italia è il Paese più bello, poi magari vanno in Austria e, non so con che coraggio, fanno lo stesso.
No, dico sul serio: l’ho scritto anche su Facebook mentre ero lì, e quel che c’è scritto su Facebook è vero per forza…

Ma a parlar d’amore penserò più tardi. Perché ora, per contestualizzare il viaggio che con ogni probabilità è stato il più carico di aspettative—mie e altrui—è il caso di parlare di FUD, che sta per food ma si legge e soprattutto si scrive fud, esattamente come i Cis Burgher, il Porc Burgher, le Potetos (ma hanno anche le Cips) e le Bir in a bottel che, tra le tante altre cose, servono ai clienti.

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La nascita di FUD

Parlare di FUD significa innanzitutto parlare di Andrea Graziano.
Catanese, classe 1976, una testa piena di ricci indomabili e un paio di occhi chiari che a volte sfuggono, inafferrabili, prima di focalizzarsi su un oggetto, un prodotto, una persona, quasi a volerne leggere dentro.

Andrea fino a poco più di 15 anni fa vendeva televisori. Poi si mise in testa di aprire un ristorante che, stando a quanto racconta, «rispetto al contesto catanese doveva essere una cosa nuova».
All’epoca, in città, il tipico ristorante aveva tre vini o poco più, e il classico piatto quadrato che ora trovi alla Rinascente allora non ce l’aveva nessuno. La scelta era quindi quella di creare una rottura con la scena locale, sia a livello di stile e di estetica, sia per quanto riguarda la cucina.

Andrea Graziano di fronte a un gigantesco “Bec Burgher”, preparato con carne di manzo siciliano, insalata, cipolla rossa in agrodolce, pomodoro, Provola delle Madonie, Guanciale croccante di Suino nero dei Nebrodi, “Barbechiù sous”, “Checiap” e Maionese in pane soffice con semi
Andrea Graziano di fronte a un gigantesco “Bec Burgher”, preparato con carne di manzo siciliano, insalata, cipolla rossa in agrodolce, pomodoro, Provola delle Madonie, Guanciale croccante di Suino nero dei Nebrodi, “Barbechiù sous”, “Checiap” e Maionese in pane soffice con semi

Andrea non nasconde che i primi anni de Il Sale—questo il nome che scelse per la sua creatura—furono piuttosto duri ma pian piano, anche grazie alle guide gastronomiche, il locale divenne un punto di riferimento, in città, che contribuì a far rinascere tutta la zona: dove fino a poco tempo prima c’era una via buia con un ristorante messicano e una pizzeria, cominciarono a nascere locali e negozi.

Dieci anni più tardi la scommessa di Andrea poteva dirsi vinta. Il Sale macinava 80-100 coperti a sera e fuori dalla porta c’era spesso una lunga fila di clienti che aspettavano di sedersi. Quando poi, qualche tempo dopo, la vecchia pizzeria che fino ad allora aveva resistito al trasformarsi della via chiuse i battenti, fu una specie di segno del destino.
Andrea, che tra l’altro aveva lavorato lì come cameriere quand’era più giovane, decise di prendere quegli spazi per creare un altro locale.

«L’idea era di fare un “posticino” d’attesa, in cui bere un aperitivo, mangiare un panino, stuzzicare qualcosa», spiega Andrea con controllato entusiasmo, più da storico appassionato, o da guida turistica che sa raccontare e venderti un luogo, che da “papà” orgoglioso di quel che ha dato alla luce.
Quel “posticino” era FUD e il resto è—come si dice in questi casi—storia. Quasi leggenda, almeno stando ai racconti di chi ha visto nascere praticamente dal nulla quella specie di miracolo che in brevissimo tempo è finito su tutti i giornali, ha attirato l’attenzione di imprenditori ben oltre i confini italiani, visto spuntare numerose imitazioni e aiutato a risollevare economicamente tante piccole aziende dell’Isola.

Anche gli “stuzzichini” sono preparati con materie prime di produttori d'eccellenza, la maggior parte dei quali sono siciliani
Anche gli “stuzzichini” sono preparati con materie prime di produttori d’eccellenza, la maggior parte dei quali sono siciliani

Lo sceicco che voleva aprire FUD

FUD inaugura un sabato sera di tre anni fa. Il mercoledì successivo succede qualcosa. La gente comincia ad arrivare. A frotte. 100 persone. Poi 200. Poi 300, 500, fino a toccare la media di 600-700 clienti di media al giorno, dal lunedì alla domenica. Ed è così da allora.

Il “posticino”, con una metratura molto più ridotta del fratello maggiore Il Sale, Andrea l’aveva immaginato gestito da tre, massimo quattro dipendenti, strategicamente spostati dal ristorante. Ora i dipendenti a tempo indeterminato sono 36 e FUD, con 70 posti a sedere e una spesa media di 10-11 Euro a cliente, fattura quasi il doppio del Sale, che ha 200 posti e una spesa media di 35 Euro.

L'inglese maccheronico parte dall'insegna, arriva nel menu e continua pure nei bagni
L’inglese maccheronico parte dall’insegna, arriva nel menu e continua pure nei bagni

Metti dei numeri del genere, raggiunti non in anni, non in mesi, ma in giorni; mettici un’immagine e una comunicazione al passo coi tempi che strizza ironicamente l’occhio sia alle nuove tendenze del “cibo da strada” in versione gourmet ma lo fa in maniera volutamente naïf dirottando ogni termine inglese in un equivalente italianizzato e storpiato—fud come cibo, poteto come patate, plis du not tru paipar tauels in toilet, c’è scritto nei bagni; mettici clienti provenienti da tutta la Sicilia, capaci di macinare ore di viaggio per poi tornare a casa e dire «io ci sono stato», mettici anche un’attenzione maniacale alla qualità del prodotto e una lista di fornitori di materie prime, la stragrande maggioranza dei quali sono siciliani, da far invidia ai ristoranti stellati; mettici tutto questo ed ecco che l’eco di FUD risuona ben oltre i confini nazionali.

Andrea comincia a ricevere chiamate e email da tutto il mondo. C’è il sindaco di un paesino siciliano che gli chiede di aprire un FUD anche lì per risollevare l’economia del posto. C’è l’imprenditore milanese che vuole lanciare un paio di posti in franchising col marchio FUD. La stessa idea arriva pure da Londra, dagli Stati Uniti, dall’Australia e—sembra una barzelletta vecchia ma è la verità—pure da uno sceicco.
Andrea rifiuta tutte le proposte finché, tre mesi fa, FUD apre anche a Palermo.

Il mio “Shek Burgher”, preparato con carne di asino di Chiaramonte Gulfi (RG), pomodoro, insalata mista, mozzarella di bufala affumicata, funghi saltati in padella, cipolla di Giarratana in agrodolce, “Barbechiù sous”, Maionese, pepe, in pane casareccio con semi
Il mio “Shek Burgher”, preparato con carne di asino di Chiaramonte Gulfi (RG), pomodoro, insalata mista, mozzarella di bufala affumicata, funghi saltati in padella, cipolla di Giarratana in agrodolce, “Barbechiù sous”, Maionese, pepe, in pane casareccio con semi

No reservation

Intanto il tavolo si riempie di leccornie da stuzzicare in attesa dei panini—io ho ordinato lo Shek Burgher, dove Shek sta per asino, visto che in Sicilia gli asini si chiamano proprio “scecchi”. C’è chi sostiene che derivi da “sceicco”: forse non è vero ma dopo la storia raccontata da Andrea il collegamento è affascinante e divertente.

Oltre ai prodotti che puoi ordinare e mangiare nel locale, FUD è anche una “Bottega Sicula” in cui acquistare formaggi, salumi, birre, vini, olio, salse, conserve, marmellate... il tutto in collaborazione (e spesso in esclusiva) con i produttori che forniscono le cucine del ristorante
Oltre ai prodotti che puoi ordinare e mangiare nel locale, FUD è anche una “Bottega Sicula” in cui acquistare formaggi, salumi, birre, vini, olio, salse, conserve, marmellate… il tutto in collaborazione (e spesso in esclusiva) con i produttori che forniscono le cucine del ristorante

Tra l’altro, il tavolo in cui stiamo mangiando è un “tavolo sociale”, dove siedono uno accanto all’altro dei totali sconosciuti, «cosa che a Catania non s’era mai vista», dice Andrea.

Oltretutto da FUD non si può nemmeno prenotare, quindi che tu sia un pezzo grosso o uno sfigato qualunque l’attesa, fuori, è uguale per tutti (cosa che a quanto pare infastidisce ancora qualcuno visto che le poche recensioni negative sui social arrivano sopratutto da chi si lamenta del tavolone comune e del non poter riservare un posto).

Mentre azzanno tutto il ben di dio che posso, rigorosamente con le mani («Spingiamo il cliente a mangiare così. Lo spingiamo a sporcarsi, a celebrare la golosità del panino fino in fondo. Ed è una cosa che diverte soprattutto le fasce di età più alte», dice Andrea, e difatti quando i clienti si alzano da tavola quel che vedi è un campo di battaglia di tovagliolini accartocciati, pezzi di pane e gocce di sugo), il papà di FUD comincia a snocciolare i nomi dei fornitori: un elenco di circa 70 eccellenze che su un’ideale vista via satellite della Sicilia andrebbe a punteggiare tutta l’isola, dai giovani birraioli di Modica alla provola delle Madonie e al suino nero dei Nebrodi.

«Con alcuni di loro», spiega Andrea, «non è stato facile guadagnarne la fiducia. Non è che tu vai lì coi soldi, fai l’ordine e via, contenti tutti. Devi anche convincerli della tua idea, del tuo progetto. Però alla fine per molti di loro siamo diventati il primo cliente—per alcuni addirittura l’unico—e abbiamo letteralmente svuotato i loro magazzini».
Logisticamente, dunque, la scelta di Palermo per il secondo ristorante è stata più che sensata, e ha costretto i fornitori, nei mesi precedenti, a riorganizzarsi e ampliarsi, a livello di dipendenti come pure di macchinari e tecnologie.

Il “Panel Bred” è una specialità del FUD di Palermo. Preparato con pane casereccio, 3 strati di panelle, mortadella di asino, limone, pepe e pepe nero
Il “Panel Bred” è una specialità del FUD di Palermo.
Preparato con pane casereccio, 3 strati di panelle, mortadella di asino, limone, pepe e pepe nero

Fare pubblicità senza fare pubblicità

Al contrario di quanto succede di solito, l’apertura del secondo locale non è stata accompagnata da chissà quale mastodontica e dispendiosa macchina promozionale ma da una semplice campagna di job recruitment per 30 posti di lavoro, una pagina d’attesa su un sito e un form da compilare per farsi spedire la newsletter.

La risposta è stata enorme, le candidature tantissime e la stampa si è scatenata nel pubblicare pezzi su un evento di cui ancora praticamente nessuno conosceva la data effettiva (FUD ha annunciato l’apertura del locale di Palermo, su Facebook, solo il giorno prima dell’inaugurazione).

Ora, tre mesi dopo, anche il ristorante di Palermo—che ha i suoi piatti tipici, tipo il panino con le panelle e quello con la milza—va a pieno regime. E FUD si prepara a lanciare un altro esperimento (e altri 20 posti di lavoro), con un nuovo locale, a Catania, proprio di fronte al vecchio, ma con una formula completamente diversa e—per ora—top secret.

In tutta questa bella storia un capitolo a parte lo meritano le patate.
Quante patate serviranno mai a una realtà come FUD?
«Al nostro fornitore abbiamo fatto piantare un campo di 6000kg ma avevamo sbagliato i calcoli e dopo tre mesi sono finite. Ora, tra il ristorante di Catania e quello di Palermo, consumiamo circa 90 tonnellate di patate l’anno».
Praticamente l’intera produzione dell’isola finisce qui. Ed è sulle patate che si può fare il ricarico maggiore, consentendo quindi di tenere bassi i prezzi di panini, preparati con ingredienti di altissima qualità e quindi costosi.

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Il segreto è la patata

Questa cosa delle patate mi è rimasta in testa per tutto il tour—o, meglio, tur, com’è stato ribattezzato in pieno stile FUD—e mi è sembrata una metafora perfetta per entrambe le città che ho visitato, Catania e Palermo, abituate a vivere e a mostrare al mondo i loro “estremi”, la bellezza assoluta e la decadenza, la Storia con la S maiuscola e l’incuria quotidiana (in questi giorni, a tal proposito, ci sono stati il “caso-Vecchioni” e l’eruzione dell’Etna).

Perché, come le patate, sono state le piccole cose, quelle meno clamorose, apparentemente più banali, quelle che stanno ai margini di una foto da cartolina ad avermi colpito e rubato il cuore.
Spiegare cos’ha scatenato quest’epifania è difficile, com’è difficile spiegare un amore. Ho quindi deciso di lasciar parlare le immagini, le foto che ho scattato in questo viaggio che, a differenza di tutti quelli a cui ho partecipato finora per lavoro, ha lasciato a me e a tutti quelli che vi hanno preso parte abbastanza tempo per girare da solo, al mattino, al mercato del pesce di Catania e ritrovare volti da film neorealista nei ragazzini che vendevano il prezzemolo a 50c al mazzetto, mentre l’equivalente degli “umarells”, che qui a Bologna stanno a guardare i lavori pubblici, lì si affacciano alla balaustra a vedere la piazza gremita e le compravendite in corso.

Tempo per vedere il mare, che se ne usciva fuori, inaspettato, tutte le volte che salivi su una cupola o t’affacciavi dai paesaggi lunari del vulcano che, onnipresente, c’è—e lo percepisci—pure quando non riesci a vederlo (e sono riuscito a vederlo solo dall’aereo, l’Etna, che ci ha pure regalato una surreale tempesta di neve).
Tempo per prendere quella stradina a caso, a Palermo, e ritrovarmi in scenari da post-seconda guerra mondiale, e poi scoprire tracce del Corano su una chiesa o simboli sacri di tutte le religioni spuntar fuori da ogni dove.
Tempo, soprattutto, per pensare: ecco cosa mi ha regalato la Sicilia, o per lo meno quel poco di Sicilia che ho visto in tre giorni di fine novembre.

[Bonus track] La prima volta che…

A proposito di liste e di prime volte, mi viene in mente che questo viaggio è stato un’apoteosi di prime volte.

• La prima volta che—come ho detto—vado in Sicilia;
• la prima volta che alle 10,00 del mattino ho già buttato giù il mio fabbisogno di calorie quotidiane, andando a intaccare, probabilmente, anche quello del giorno successivo;
• la prima volta che non riesco a finire quel che ho nel piatto, anzi, per la precisione, quel che ho nel cartoccio comperato in una bancarella del mercato del pesce: delle alici con erbette e prezzemolo, talmente salate che riesco a mandarne giù solo tre, dopo averle sommerse di succo di limone (come suggerito da chi me la ha vendute), e sento in diretta il mio corpo che si disidrata e prosciuga;
• la prima volta che mangio mortadella di asino;
• la prima volta che vedo come unità di misura per i prezzi l’euro, proprio nel senso di 1 Euro: nei mercati, soprattutto per quanto riguarda frutta e verdura, più che i prezzi al chilo i cartelli indicano quante cassette di roba puoi portarti a casa con 1 Euro;
• la prima volta che mi ritrovo a spiegare cosa sono i video dei “prediciottesimi” a un’americana (su un balconcino, affacciati su una via di Palermo, a fumare e a guardare la pioggia cadere a secchiate);
• la prima volta che compro un gratta-e-vinci durante un volo;
• la prima volta che la mia vicina di posto, in aereo, non riesce ad allacciarsi la cintura perché tra la pancia e la borsa che si rifiuta di mettere nel vano portabagli, non c’entra;
• la prima volta che lo steward fa battute al microfono per tutto il viaggio e sembra di essere in uno di quei film in cui poi succede qualcosa e l’aereo precipita lentissimamente e fai in tempo a conoscere vita, storia e scheletri nell’armadio di ogni singolo passeggero e poi, alla fine, muori schiantato;
• la prima volta che c’è una lite, sempre sul volo dello steward-comico, per uno che non vuole fare a cambio di posto e a un certo punto, chissà perché, salgono pure quelli dell’ambulanza, c’è un parapiglia, volano minacce, ma alla fine tutto torna alla normalità e partiamo con una mezz’ora di ritardo;
• la prima volta che lo steward è talmente assurdo che riesce a sedurre la mia vicina-palla e a venderle una valigiata di gratta-e-vinci;
• la prima volta che un tizio con una gigantesca videocamera professionale riprende gli interni dell’aereo, zooma sulla cabina di pilotaggio prima del decollo e il suo vicino, spaventato, va lemme lemme a chiamare il personale di bordo e quelli gli fanno cancellare tutto (sì, ovviamente sullo stesso, pazzesco volo, ma prima della lite quindi non c’entrava: non stavano girando un film, anche se ci ho pensato pure io).

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