I tarocchi di Enologica 2015: gli amanti, il carro, l’eremita, la giustizia

In collaborazione con Enologica, salone del vino e del prodotto tipico dell’Emilia Romagna, raccontiamo le carte dei Tarocchi, nell’interpretazione degli originali, a cura di Andrea Vitali, storico del simbolismo ed esperto internazionale di Tarocchi, e nella versione creata ad hoc per l’evento, legata ai prodotti tipici dell’Emilia Romagna, e raccontata da Giorgio Melandri, da 9 anni curatore di Enologica.
Tutte le carte sono illustrate da Francesca Ballarini.


AMANTI

Gli Amanti

di Andrea Vitali

Nei quattrocenteschi Tarocchi Visconti Sforza questa allegoria è raffigurata da due giovani durante la cerimonia della “dextrarum iunctio”, ovvero l’unione della mano destra, rito di indissolubile legame in voga anche all’epoca romana, specialmente fra la classe senatoria. Li sovrasta in piedi sopra una fontana Cupido, dio dell’Amore sessuale, bendato e munito di frecce. Per questo motivo venne anche chiamato “traforello” perché trafiggeva gli uomini con dardi di passione amorosa.

L’Aretino nell’opera Le carte parlanti (1543) gli riserva gli attributi di “furfantino” e “impiegatorio”, quest’ultimo per il fatto che, essendo al servizio della madre Venere, da bravo figliolo, ubbidiva ciecamente a tutto ciò che la madre gli imponeva di fare, come il più umile degli impiegati.

Per comprendere il significato attribuito all’Amore nei tarocchi, occorre far riferimento ai Trionfi del Petrarca dove viene interpretato come “istinto”, forza travolgente che spinge l’uomo ad abbracciare le proprie passioni rendendolo cieco come lo era Cupido, che colpiva ovunque senza un’apparente ragione.

Una variante figurativa apparsa nei tarocchi nel sec. XVII consiste nell’immagine di un uomo in atteggiamento pensoso fra due donne. Non si poteva certamente affermare che una delle due fosse una grande bellezza, in confronto all’altra assai seducente. Per di più, colei che non brillava era completamente vestita fino al collo, mentre l’altra mostrava nudità in più parti del corpo fra cui il seno.
L’immagine si riferisce al mito di Ercole al bivio fra il Vizio e la Virtù. Quale delle due donne scegliere? Se l’una, quella meno bella, teneva la mano destra alzata indicando un alto colle, raggiungibile attraverso un percorso tortuoso e sulla cui cima si trovava Pegaso, il cavallo alato simbolo della fama, l’altra fanciulla teneva la mano rivolta verso il basso indicando all’eroe bicchieri colmi di buon vino, maschere e carte da gioco e, in alcuni casi, fanciulle nude che si dilettavano nelle acque di un laghetto.

Lasciando al lettore di immaginare quale delle due signore incarnasse il Vizio, questa “favola” ideata dal greco Prodico, amico di Socrate e Platone, e narrata da Senofonte (Detti memorabili di Socrate, 2.1,22 ss.), fu assunta dalla Chiesa del tempo quale insegnamento sulla giusta via da seguire, dato che Ercole—forse abbagliato dal sole?—scelse la Virtù. Anche se il percorso che conduceva ad una vita virtuosa appariva ad Ercole tortuoso e in salita, la sua scelta venne ricompensata da Giove che di lui ne fece un dio.

In cartomanzia questa carta esprime semplicemente una scelta o la necessità di operarla.

Lambrusco Salamino di S. Croce

di Giorgio Melandri

«Gli amanti in cartomanzia esprimono semplicemente una scelta o la necessità di operarla. Noi abbiniamo questa carta al Lambrusco Salamino di S. Croce, una DOC che testimonia bene la scelta di Modena di puntare sulla specializzazione dei territori. Un scelta che ha la forza di una grande tradizione».

S. Croce di Carpi è una piccola frazione alle porte di Carpi, a pochi km dal fiume Secchia. Siamo nella pianura modenese, al confine con il territorio reggiano, qui così vicino che alcune parrocchie della diocesi di Carpi sono in provincia di Reggio Emilia.
La pianura è il regno del Salamino, il vitigno che regala il nome alla DOC.

Per parlare del Salamino di S. Croce occorre partire da qui, dal suo paesaggio, da una pianura segnata da argini e canali, da campanili e grandi alberi solitari. Il paesaggio qui è cambiato parecchio, soprattutto con la scomparsa delle famose piantate che reggevano i festoni formati dalle liane della vite. Poi è arrivato il Bellussi, il sistema a raggi molto diffuso nel modenese che lascia sfogare la pianta e che ancora ha accaniti estimatori. In ultimo, e siamo ai giorni nostri, gli impianti moderni.

Per capire la storia di questo territorio e della incredibile diffusione della vite, occorre parlare delle sue cantine cooperative, le prime nate in Italia.
La Cantina di Carpi, fondata nel 1903 è la più vecchia cantina cooperativa italiana ancora in attività se si escludono le cantine altoatesine che furono fondate quando l’Alto Adige era ancora austriaco.

Agli inizi del 1900 la minaccia di una crisi vinicola turbava l’animo di tutti i viticoltori. A Carpi, il dott. Alfredo Molinari, per far fronte a tutto ciò, propone l’istituzione di una Società Civile, che insieme alla Cooperazione di alcuni viticoltori, avrebbe permesso la completa solidarietà fra gli associati, responsabilità illimitata di fronte a terzi, garanzia di affidamento. Nasce così la Cantina Sociale di Carpi.

Siamo agli albori dell’agricoltura moderna. Conclusa la prima Guerra Mondiale nel 1918, la Cantina diventa una Cooperativa. Un ruolo importante in quegli anni fu quello di Gino Friedmann che nel 1913 fu promotore della Cantina Sociale Cooperativa di Nonantola, costituita a Modena il 18 maggio dello stesso anno. Sogno e visione, grande energia e capacità di fare progetti concreti come la costruzione della sede della cantina in un’area adiacente la ferrovia con la dichiarata intenzione di sfruttare la nascente linea Modena-Ferrara per spedire il vino.

Friedmann era convinto dei principi di cui aveva dimostrato con la pratica la validità e si fece promotore della nascita di un sistema cooperativo nell’intera provincia: nel 1920 fu creata la cantina sociale di Formigine, alla quale seguirono, nel 1923, quelle di Modena, di Sorbara, di Limidi e di Settecani.
Il modello cooperativo si affermò in fretta, tanto che in un articolo del 1927 il Direttore della Cattedra Ambulante di Modena G. Toni sottolinea come Reggio Emilia con il 50,6% e Modena con il 47,6%, rappresentino le aree in cui la viticoltura occupava la maggior superficie agricola coltivabile. Gino Friedmann fu un personaggio straordinario che promosse la cooperazione, ma che soprattutto portò la cultura dell’innovazione dentro all’agricoltura di questo territorio. Ebreo, figlio di una importante famiglia modenese, fu anche sindaco di Nonantola e fu il primo presidente della Federazione nazionale delle cantine sociali fondata nel 1922.

Ma torniamo al Salamino.
È il più educato dei lambrusco, resta equilibrato anche nei terreni grassi della pianura che si allontana da Secchia e Panaro, sempre suadente nei tannini, elegante e austero nel frutto. È forse meno ancestrale di altri lambrusco, e l’equilibrio complessivo che regala ai vini è la firma di questa caratteristica. Si adatta anche ai terreni più sciolti del territorio di Sorbara, dove viene piantato per fare da impollinatore a quel vitigno meraviglioso e difficile che è il sorbara. Il grappolo è piccolo e compatto e somiglia ad un piccolo salame, caratteristica che gli ha regalato questo originale nome.

Per chiudere un pensiero ad un grande interprete del Salamino di S. Croce, Villiam Friggeri, a lungo enologo della cantina cooperativa di S. Croce, scomparso nel 2014.


CARRO

Il Carro

di Andrea Vitali

Nell’antica Roma quando un generale tornava vittorioso da una campagna militare, riceveva dall’imperatore, e in età repubblicana dal Senato, il Trionfo, cioè una corona d’alloro, segno dell’imperitura riconoscenza del popolo romano.
Il suo cocchio sfilava per le vie della città, tra due ali di folla osannante, seguito dai legionari, dai nemici vinti in catene e da carri colmi dei tesori tolti agli avversari.
Uno schiavo teneva sulla testa del generale l’alloro della vittoria e gli sussurrava all’orecchio: «Respice post te! Hominem te memento!» (Guarda dietro te! Ricordati di essere un uomo!). Un consiglio, un comando o un semplice avvertimento?

Al tempo degli imperatori, se concedere il Trionfo era indispensabile rituale, il momento si configurava non proprio dei migliori poiché le legioni avrebbero ubbidito al proprio generale se questo avesse deciso di impossessarsi del potere. Le parole sussurrate all’orecchio del trionfatore stavano a significare che il vero dio era l’imperatore e che ribellarsi al suo potere sarebbe stato come tradire una divinità. Azione inaccettabile.

Nella più antica lista di tarocchi conosciuta, risalente alla fine del sec. XV, l’anonimo monaco compilatore chiama questo carta “lo caro triumphale”, cioè il carro trionfale, definendolo con l’attributo “mundus parvus” ovvero un piccolo mondo, un trionfo minimo.
In parole povere un trionfo illusorio, un monito indirizzato a chiunque cercasse la gloria e la fama, dato che queste sarebbero defunte con la morte.

Per cui l’espressione “Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris” (Ricordati uomo, che sei polvere e polvere ritornerai) tanto declamata dalla Chiesa non era altro che un ampliamento orrificante della frase sussurrata all’orecchio dei generali vittoriosi, un additare alla morte come la fine di ogni successo che, essendo terreno, sarebbe svanito nel nulla. Infatti il Carro assumendo nei tarocchi i valori attribuiti dal Petrarca alla Fama nei suoi celebri Trionfi, anche se questa consegna al tempo le gesta dei grandi uomini, dovrà poi soccombere al Tempo e soprattutto all’unica e vera realtà immutabile, cioè la Divinità che il Petrarca espresse nel Trionfo dell’Eternità.

La carta mostra un guerriero in armatura o in ogni modo lussuosamente vestito su un carro trainato da cavalli, con in mano il globo aureo e il bastone del comando. C’è da chiedersi chi governasse il carro.

In cartomanzia significa avere successo, trionfare e un muoversi caratterizzato da una spinta motivazionale forte.

Colli di Parma Barbera

di Giorgio Melandri

«Il Carro è in cartomanzia una carta che significa successo, movimento, motivazione. La Barbera dei Colli di Parma con la sua freschezza e la sua energia è esattamente questo, un vino in movimento pieno di allegria e forza».

«È la barbera il vino importante di Parma, è sempre stato così. Secondo me lo si può considerare l’espressione più alta del nostro territorio». Ricordo questa frase con precisione a distanza di anni. Me la disse una mattina Camillo Donati, il vignaiolo di Parma famoso in tutto il mondo per i suoi vini rifermentati in bottiglia, nella sua cantina a due passi dal Castello di Torrechiara.

«Molti purtroppo ignorano la storia della viticoltura delle nostre zone, ma prima dell’avvento della fillossera le colline attorno a Torrechiara, Arola e Barbiano erano tappezzate da vigneti per lo più di Barbera, Malvasia Aromatica di Candia e Moscato. Dopo la fillossera, che ha letteralmente devastato i vigneti, i grandi proprietari terrieri hanno investito nell’allevamento bovino per la produzione di Parmigiano Reggiano anche in collina, ritenendolo meno rischioso». E forse, un altro nemico della vigna fu la battaglia del grano voluta da Benito Mussolini.

E quella di Camillo Donati non è l’unica testimonianza in questo senso.
«Una cosa è certa, era la Barbera il vitigno principe delle colline attorno a Langhirano,», a parlare è Giovanni Lamoretti, erede di un’azienda storica di questo territorio, «anche se parlare di purezza mi sembra azzardato perché ognuno faceva le vigne a modo suo, mescolando vitigni e biotipi. Comunque la Barbera era la regina di queste colline, famosa già alla fine dell’ottocento, in particolare quelle di Maiatico e di Casatico. L’azienda Grossi, per fare un esempio, riforniva la casa reale proprio con la Barbera di Parma. Il Lambrusco era nelle piantate di pianura insieme alla Fortana, tra una striscia di prato stabile e l’altra. Ricordo che nei primi anni ’70 a Parma si cercò di fare un Consorzio del Lambrusco, ma di fatto non si riuscì perché non c’erano le vigne».

Oggi a Parma si parla di lambrusco, ma a guardare la tradizione, il rosso frizzante di Parma è sempre stato un vino fatto con la Barbera, in gran parte, e la Bonarda. È la stessa tradizione di Piacenza, fatto che testimonia una continuità importante tra queste due provincie, riscontrabile anche nei vini bianchi fatti con la malvasia.
A Piacenza hanno dato un nome a questo vino, il Gutturnio, a Parma no. Questo è successo e questo ha influenzato la storia in modo significativo. Non che a Parma non ci fossero uve lambrusco, ma quella non era la tradizione importante del territorio.

Oggi parlare di Barbera sembra strano, quasi fosse una curiosità e invece nella storia di Parma questo vitigno aveva il ruolo di protagonista.
«Quel rosso frizzante fatto con Barbera e Bonarda era il vino rosso di Parma. E credo lo sia ancora. Io lo vado a cercare presso gli artigiani di collina che ne hanno conservato la tradizione». A parlare è Diego Sorba del Tabarro, uno degli Osti più conosciuti e originali della città. Andrea Grignaffini, stimato giornalista enogastronomico parmigiano, aggiunge a questo racconto un suo ricordo personale, che arricchisce la nostra lettura: «A Parma, in città, si beveva anche un vino rosso frizzante abboccato fatto con Fortana e lambrusco Maestri, un vino semplice e fruttato. A Parma, bisogna dirlo, un certo gusto per il dolce c’è e questi vini da osteria erano molto amati dalla gente».

A fare una sintesi tra questi contributi una conclusione viene fuori: il vino della tradizione collinare è quello che oggi si chiama Colli di Parma rosso, un vino rosso frizzante ottenuto da Barbera, in gran parte, e Bonarda. Un vino molto vicino al piacentino Gutturnio, rosso e frizzante.
Molti però ricordano la particolare vocazione delle colline parmensi per la Barbera, un vino che solo in questo territorio veniva vinificato anche da solo. Come fanno ancora Camillo Donati e Giovanni Lamoretti e come fanno alcuni altri piccoli artigiani come Gianmaria Cunial e Crocizia. Accanto a questi, che vinificano la barbera frizzante c’è l’impegno di Monte delle Vigne che porta avanti un interessante progetto per una barbera vinificata ferma.


EREMITA

L’Eremita

di Andrea Vitali

L’Eremita, nell’ordine degli Arcani Maggiori rappresenta il pensiero dell’uomo che deve essere indirizzato alla valutazione della propria natura umana, una natura che lo identifica come figlio di Dio, prerogativa possibile da riconoscere attraverso la meditazione e l’introspezione.

Nei Tarocchi Visconti-Sforza del sec. XV e nei mazzi dei secoli successivi l’Eremita viene solitamente raffigurato come un vecchio che si appoggia ad un bastone mentre tiene in mano una clessidra (in alcuni casi una lanterna) a significare la ricerca della verità da parte dell’uomo. Una ricerca che, come simboleggia la clessidra, necessita di tempo.
La lanterna simboleggia invece la luce che può illuminare l’oscurità della mente, offuscata dalle passioni terrene.

Una consistente variante appare nei tarocchi bolognesi e toscani dove il vecchio è raffigurato come Saturno, dio del Tempo, con ali (dato che il tempo vola) e grucce (poiché è vecchio, vi si appoggia).
Nel Tarocchino di Bologna, il vecchio sostiene una colonna posta sulla schiena, evidente riferimento al mondo degli stiliti, cioè di quei santi eremiti che trascorsero nel Vicino Oriente buona parte della propria esistenza in cima a colonne, accuditi dal popolo, che veniva da questi ricompensato con le informazioni che i santi uomini ricevevano dal cielo riguardanti il benessere del popolo stesso.

Poiché i pagani onoravano i loro dei ponendoli sulle colonne, gli stiliti, vivendo su queste, intendevano scalzare quei falsi idoli prendendone il posto in nome del Cristo.
Inoltre la colonna rappresenta anche quella “rovina”, che risulta essere una fra le conseguenze del trascorrere inesorabile del tempo. Infatti le raffigurazioni di rovine contemplano quasi sempre una colonna che si erge, sola, fra le macerie.

La saggezza del vecchio viene messa in risalto dalla barba e dai capelli bianchi, che accomuna tutte le immagini degli Eremiti nei tarocchi: solo nella vecchiaia era considerato possibile acquisire quella maturità, pacatezza e dignità necessarie per acquisire la retta conoscenza delle cose e più la barba era lunga—assecondando in tal modo la moda del tempo per le persone anziane—più venivano esaltate le qualità di introspezione personale. Non a caso barba e capelli bianchi caratterizzano nei tarocchi anche le immagini del Papa.

Dal punto di vista divinatorio, l’Eremita significa quindi meditare, indagare e il trascorrere del tempo, necessario per giungere alla consapevolezza di se stessi o delle situazioni oggetto dell’indagine cartomantica.

Romagna Sangiovese

di Giorgio Melandri

«L’Eremita è la carta dei tarocchi che rappresenta il tempo e la sapienza. Sono esattamente le cose che ci chiede il sangiovese, ovvero di rispettarne le attese che lo fanno grande e di comprenderne la sapiente lettura territoriale che può regalarci».

Difficile, sempre austero, scontroso, scarico di colore, irriverente, eppure meraviglioso e capace di letture territoriali raffinate e piene di dettagli. È fruttato quando cresce sulle argille della prima quinta collinare, floreale e minerale quando incontra i terreni poveri e sciolti delle colline più alte.
In Romagna, vero e proprio mosaico di terroir, il sangiovese può esprimere tutto il suo potenziale di traduttore di suoli e microclimi.

Viaggiando sul tratto romagnolo della via Emilia si incontrano le città una dopo l’altra e in corrispondenza di ognuna salgono dalla pianura verso l’Appennino una o più valli, ciascuna con il suo carattere e la sua storia. E pare che sia proprio dal crinale che divide Romagna e Toscana, come documentato recentemente dallo storico Beppe Sangiorgi, che il sangiovese si sia diffuso nelle due regioni.
Sangiorgi ipotizza infatti che la culla del vitigno, un ibrido tra Ciliegiolo e il calabrese Negrodolce, siano stati i monasteri della Congregazione Vallombrosiana diffusi nel crinale tra Casola Valsenio, Marradi e il Casentino.
Il nome deriverebbe, secondo l’ipotesi del linguista Friederich Schürr, dai gioghi nei quali i monaci piantavano le loro vigne.

In Romagna il sangiovese è sempre stato un vino contadino, semplice e bevuto nell’annata, vinificato spesso insieme alle uve bianche che venivano piantate insieme a lui nelle vigne.

È stato il novecento, a partire dagli anni ’70, a vederlo protagonista di esperienze di qualità che hanno cominciato a farne esprimere le potenzialità e la capacità di invecchiare e sviluppare complessità.
Tra i pionieri di questa rivoluzione ricordiamo la Fattoria Paradiso di Bertinoro, Nicolucci a Predappio Alta, Castelluccio a Modigliana, la Fattoria Zerbina a Marzeno. Grazie a loro e a tutti i vignaioli che li hanno seguiti è diventato possibile leggere la Romagna per territori. Fu una piccola rivoluzione avviata nel 2004 da una intuizione mia e di Fabio Giavedoni. Da allora questa idea è stata sviluppata e approfondita fino ad arrivare nel 2011 alla definizione delle menzioni geografiche aggiuntive che si possono aggiungere in etichetta:

Bertinoro, solo con la menzione Riserva
Brisighella, anche con la menzione Riserva
Castrocaro-Terra del Sole, anche con la menzione Riserva
Cesena, anche con la menzione Riserva
Longiano, anche con la menzione Riserva
Meldola, anche con la menzione Riserva
Modigliana, anche con la menzione Riserva
Marzeno, anche con la menzione Riserva
Oriolo, anche con la menzione Riserva
Predappio, anche con la menzione Riserva
San Vicinio, anche con la menzione Riserva
Serra, anche con la menzione Riserva.

In questo mosaico di terroir ci sono le marne e arenarie dei territori più alti con vini sottili e minerali che lasciano la freschezza a dettare il ritmo, e i vini carnosi e materici delle argille più pure.

Il novecento, che ha chiesto all’agricoltura quantità ed efficienza, ha “scacciato” il sangiovese dalle zone alte per portarla a valle, sulle fertili argille della prima quinta collinare. Da lì sono partiti i progetti di qualità negli ultimi trenta anni, ma le zone alte, quasi dimenticate, stanno tornando ad essere protagoniste perché lì il sangiovese diventa elegantissimo, fresco e teso, anche “duro” a volte, con tannini e acidità in grado di affrontare il tempo con disinvoltura.

I terreni argillosi sono a loro volta un mondo variegato. Sono più o meno pure, più o meno evolute, le argille. Il timbro del frutto è carnoso, comunque austero, ma espressivo e le bocche possono lavorare sul volume grazie alla spinta acida che alza comunque il ritmo del vino. Le argille rosse evolute del faentino sono un terroir di riferimento per lo stile, ma sono interessanti anche le argille più chiare del territorio riminese e le argille sabbiose della zona tra Vecchiazzano e Forlì.

Tra Faenza e Forlì si trova anche un terreno originale, una lente di sabbie molasse, ideale anche per i bianchi da uve albana.
Sul “fronte mare” delle colline romagnole c’è una altro terroir unico, si tratta dei suoli calcarei di Bertinoro, terreni ventilati dove emerge in continuazione lo spungone, un tufo marino che è la firma di queste colline.

I vini di Bertinoro hanno una trama tannica serrata, grandi potenziali di longevità e un equilibrio sempre riuscito tra l’eleganza e il grande carattere.
Interessante anche il territorio riminese, argille calcaree, colline dolcissime e aperte e curve termiche mitigate dal mare. È un terroir che non risparmia la freschezza, ma che regala bocche in generale più suadenti.

Per ultimo vorrei citare un territorio nuovo, il Montefeltro, una regione storica che è oggi a cavallo tra Romagna e Marche. Qui, in alto e precisamente a Macerata Feltria, c’è l’esperienza faro di Valturio, il progetto visionario di Adriano Galli che ha di fatto inventato un terroir inedito e straordinario per il sangiovese consegnandoci la certezza di una grande vocazione territoriale.


GIUSTIZIA

La giustizia

di Andrea Vitali

La Giustizia, una delle tre virtù cardinali presenti nei tarocchi assieme alla Temperanza e alla Forza, viene rappresentata da una donna seduta che tiene nelle mani una bilancia e una spada. La spada è sempre rivolta verso l’alto, in posizione eretta, senza che mai si pieghi verso uno dei due lati, a significare che essa non favorirà mai alcuna parte ma che sarà usata esclusivamente come strumento di difesa dei giusti.
Un atteggiamento che la identifica come Giustizia divina, poiché quella degli uomini, come ben sappiamo, sovente si discosta da questo atteggiamento. La bilancia simboleggia invece l’equità con cui verrà valutata ciascuna azione umana.

In quanto cardinale, cioè cardine fondamentale su cui deve ruotare la condotta di vita cristiana, indica che le azioni dell’uomo devono conformarsi sulla fede, ovviamente quella cattolica, e sulla ragione, una volta acquisita la conoscenza con la pratica.

Nel tarocchino bolognese a figura intera—quelli a figura doppia erano maggiormente utilizzati per il gioco, dato che non occorreva rivoltare le carte per metterle in posizione diritta—la donna tiene nella mano sinistra anche il globo aureo, simbolo di comando e in alcuni casi il Libro della Legge, posto sulle ginocchia.

Nei quattrocenteschi Tarocchi Visconti Sforza la sezione superiore della carta mostra un cavaliere al galoppo con armatura e spada. Si tratta dell’Arcangelo Michele, prototipo del cavaliere cristiano, spesso raffigurato con la spada e la bilancia come troviamo nella Cappella degli Angeli nel Tempio Malatestiano di Rimini. A lui spetta il compito della pesa delle anime dei morti in occasione del Giudizio Universale (Apocalisse, VI, 2).

Non si deve infatti dimenticare che nel primo ordine di trionfi conosciuto presente nel Sermones de Ludo (Discorso sul gioco) la Giustizia segue il Giudizio a significare che in quell’occasione la Giustizia divina trionferà, che le anime buone saranno divise da quelle malvagie e che in tutto ciò la bontà, la clemenza e la misericordia di Dio avranno un ruolo predominante.

Dal punto di vista divinatorio la Giustizia indica la valutazione di cose, persone e situazioni; equità, equilibrio e, ovviamente, il tribunale.

Il Gutturnio

di Giorgio Melandri

«Dal punto di vista divinatorio la Giustizia indica la valutazione di persone e situazioni, ma anche l’equità e l’equilibrio. Facile associarla al Gutturnio, un vino che vive dell’equilibrio tra le due uve che lo compongono: da una parte la barbera con la sua acidità, dall’altra la bonarda con i suoi tannini».

Il Gutturnio è un vino che chiede coraggio e amore per la classicità. È tradizionalmente frizzante, ma ha espresso sempre grandi valori di qualità anche nelle versioni ferme. È tagliente in bocca e al naso si esprime su un frutto nitido ed austero e a volte sulle note terrose della tradizionale rifermentazione in bottiglia.

I Colli Piacentini sono un grande mosaico di territori e microclimi distribuiti su quattro bellissime valli piene di storia e castelli. Il vino simbolo di questo territorio è il Gutturnio, ottenuto dall’assemblaggio di Barbera (dal 55 al 70%) e Croatina, localmente detta Bonarda, (dal 30 al 45%).
Data la differenza nei loro tempi di maturazione e negli accorgimenti necessari nella vinificazione, le due uve vengono vinificate separatamente, per poi unirsi successivamente.

Il Gutturnio prende il nome da un boccale d’argento di epoca romana, il Gutturnium, ritrovato nel 1878 sulla riva del fiume Po, nei pressi di Castelvetro Piacentino, precisamente a Croce Santo Spirito.

Proviamo a vedere una per una le quattro valli piacentine.
La Val d’Arda, al confine con Parma, è una valle che prende il nome dal torrente Arda, affluente destro del fiume Po. Si arrampica in Appennino a partire da Castell’Arquato, e nel suo territorio possono essere comprese le valli vicine dello Stirone, dell’Ongina, del Chiavenna e del Chero. Da segnalare che sul crinale tra la valle dell’Ongina e quella dello Stirone c’è su un rilievo un imponente complesso fortificato, il Castello di Vigoleno, bellissimo ed intatto in tutte le sue parti. Qui si produce da rare uve autoctone il Vin Santo di Vigoleno, uno dei vini dolci più preziosi e buoni d’Italia.

La Val Nure è una delle due vallate centrali della provincia, partendo da Piacenza è percorribile con la fondovalle SS n. 654, della Val Nure. Lasciandosi alle spalle la pianura, addentrandosi verso le colline si incontra il bellissimo borgo in stile medievale di Grazzano Visconti.
Diverse sono le importanti aziende vitivinicole che si scorgono salendo sul crinale delle colline di destra fino ad arrivare al cuore della Val Nure a Ponte dell’Olio. Questa valle è forse quella con la maggior tradizione vinicola del territorio piacentino.

La Val Trebbia prende il nome del fiume che segna una delle più belle vallate d’Italia. Le rive ghiaiose e ciottolose del fiume sono meta obbligata e fissa per i bagni di sole dei piacentini, milanesi, pavesi e cremonesi. La SS 45, partendo da Piacenza e passando per Bobbio, costeggia il fiume ed arriva fino al mare ligure: è una strada piena di bellezze naturali e paesaggistiche. Qui, nei pressi di Travo e più in alto, c’è una storica produzione di uve bianche ripresa oggi da alcuni viticoltori. In basso ci sono le argille rosse e povere che hanno reso famosi i vini de La Stoppa, l’azienda piacentina che da oltre cento anni produce vini di qualità e che è un riferimento per tutta la provincia.

La Val Tidone sale da Castel S. Giovanni, nota cittadina sulla s.s. 10, e punta verso le prime colline di Borgonovo Val Tidone dove si incontrano la bella Rocca-Castello e poi le prime aree vitate lungo la strada che porta a Ziano. Oggi è la valle più vitata dell’intera provincia e conta alcuni cru di grande reputazione come ad esempio quello di Montepo.

Torniamo al Gutturnio, vino nato con la DOC nel 1967, e prodotto in 3 diverse tipologie: frizzante, superiore (fermo) e riserva (fermo).
La dicitura Classico, presente su alcune bottiglie nella versione “fermo”, identifica un vino prodotto nei comprensori storici della Val Tidone, della Val Nure e delle valli del Chero e dell’Arda con i territori collinari dei comuni di Ziano Piacentino e parzialmente quelli di Borgonovo Val Tidone, Castel San Giovanni, Nibbiano, Vigolzone, Castell’Arquato, Carpaneto, Lugagnano Val d’Arda e Gropparello fino ad un’altitudine massima di 350 metri.

Al di là delle infinite citazioni storiche che si possono trovare per i vini piacentini, quello che va detto è che questo vino alimentava un mercato che aveva nel fiume Po e nei suoi porti il centro nevralgico.
Nelle osterie lungo il fiume si beveva tradizionalmente Gutturnio negli scudlen, le classiche tazze bianche usate ancora oggi da qualcuno, e il vino era venduto ai mercanti che viaggiavano sul fiume e verso la Lombardia, ancora oggi un mercato di riferimento per i vini piacentini.


Leggi anche le altre puntate:

1) il bagatto, la papessa, l’imperatrice, l’imperatore e il papa
3) la ruota della fortuna, la forza, l’appeso, la morte, la temperanza
4) il diavolo, la torre, le stelle, la luna, il sole
5) il giudizio, il mondo, il matto, l’Adriatico

Un messaggio

Frizzifrizzi è sempre stato e sempre rimarrà gratuito. Si tratta di un progetto realizzato ogni giorno con amore e con impegno. La volontà è di continuare a farlo cercando di tenere al minimo la pubblicità. Per questo ti chiediamo una mano — se vorrai — con una piccola donazione. Potrai farla su PayPal.

GRAZIE DI CUORE.