L’erba cattiva non muore mai: intervista ad Andreco sul lavoro svolto durante l’ultimo Santarcangelo Festival

Mi chiedo se passerà mai, ai giornali italiani, la tendenza a semplificare tutto appiccicando facili etichette, accompagnate da “foto schock” e moralismo un tanto al chilo. Perché a giudicare da quel che è stato scritto su alcune testate nazionali e locali, e dalle polemiche sollevate da politici e genitori “indignati e preoccupati”, sembra che nell’ultima edizione del Santarcangelo Festival, chiusasi lo scorso 19 luglio, ci sia stato solo quello — sai di cosa sto parlando, vero? Della pisciata nudista, che per l’ottusità, la miopia e la bocca a culo di gallina di alcuni ha oscurato, agli occhi del grande pubblico, un programma che invece è stato ricchissimo e intenso.

Da quel programma noi siamo andati invece a pescare il lavoro e la performance di quello che, tra tutti, era l’artista più vicino alle “corde” di Frizzifrizzi e cioè Andreco.
Da anni, parallelamente alla sua attività di dottore di ricerca in Ingegneria Ambientale sulla sostenibilità urbana, Andreco porta avanti anche una ricerca artistica sul rapporto tra uomo e ambiente e quello tra spazio urbano e paesaggio naturale.

Al festival, oltre a un’installazione intitolata Biancospino Illegale — dedicata alla censura e alla biodiversità (il biancospino è stato infatti praticamente “messo al bando” perché portatore di un virus) — Andreco ha anche tenuto un partecipatissimo workshop e collaborato con Motus alla messa in scena di una parata, L’èrba catíva (l’an mór mai) svoltasi il 18 luglio nel Parco Cappuccini di Santarcangelo.

Noi ci siamo fatti raccontare tutto dall’artista stesso, con una lunga intervista

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foto: Ilaria Scarpa (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa
(courtesy: Santarcangelo Festival)

Com’è nata l’idea e, soprattutto, quale progetto hai sviluppato per primo? L’èrba catíva è una conseguenza di Biancospino illegale o viceversa?

L’installazione e la performance sono due progetti indipendenti ma concettualmente collegati. Biancospino Illegale è un progetto a cui penso da qualche anno, da quando stavo studiando le proprietà ambientali di questo arbusto e poi ho letto della normativa che vieta la sua messa a dimora. (Una prima versione dell’installazione l’avevo fatta a Milano per la mostra collettiva Garten nel 2013). La parata L’èrba catíva (l’an mór mai) che in dialetto significa “l’Erba cattiva non muore mai”, invece nasce per il Festival di Santarcangelo dei Teatri.

Non è stata la prima parata che hai organizzato, giusto?

La mia prima parata risale al 2008 per il Festival PopUP! ad Ancona: aveva l’intento di “traghettare” il pubblico presente alla mostra organizzata dal festival al museo della città in pieno centro storico fino al Mandracchio, il porto dei pescatori nella prima periferia industriale dove avevo realizzato una balena di venti metri con gli organi interni a vista sulla facciata del mercato del pesce. Le parate sono dei progetti legati al territorio che spesso uniscono simbolicamente e concettualmente due luoghi.

Come hai lavorato all’installazione? La tua ricerca artistica, dopotutto, è quasi interamente centrata sul rapporto tra uomo e natura.

In generale la mia ricerca artistica vuole costruire un linguaggio visivo ispirato dalla ricerca scientifica contemporanea nell’ambito della sostenibilità ambientale.

L’installazione Biancospino Illegale è una delle opere che fa parte di Nature as Art (Natura come Arte), un progetto artistico che nasce dall’interesse per il rapporto tra uomo e natura ed esplora le caratteristiche delle piante. Per Nature as Art scelgo alcuni elementi naturali, basandomi su studi scientifici, per poi decontestualizzarli.

Molto spesso decido di sospendere l’elemento nel vuoto tramite delle funi. Il semplice gesto di sospendere in aria una pianta la fa diventare altro: il suo inserimento in un’installazione infatti permette di mostrarla sotto un punto di vista diverso, valorizza le sue proprietà ed il suo carattere ontologico. Questa operazione modifica l’attenzione e la percezione di chi osserva.

foto: Marco Sfrevol Montanari (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Marco Sfrevol Montanari
(courtesy: Santarcangelo Festival)

Ci sono stati problemi per poter utilizzare le piante di biancospino?

L’ufficio Produzione del Festival di Santarcangelo dei Teatri ha lavorato due mesi per ottenere tutti i permessi e una deroga speciale sulla normativa da parte dell’Ufficio Fitosanitario Regionale per avere le piante di biancospino in piazza per i dieci giorni del festival.

La deroga impone che al termine dei dieci giorni le piante devono essere bruciate oppure portate in un luogo urbano specifico, fornendo la destinazione esatta. Ogni pianta di biancospino ha un suo “passaporto” di viaggio.

Il paradosso è che a qualche centinaia di metri di distanza, nel Parco dei Cappuccini da dove è partita la parata c’è un boschetto di biancospini spontanei. Abbiamo optato per salvare le piante destinandole a un’abitazione dopo il festival.

Tra l’altro il biancospino, protagonista dell’istallazione, è una pianta sacra per molte culture, un simbolo erotico, e in epoca romana era consacrata alla dea Cardea, e nei boschi si svolgevano riti orgiastici. E ora in molte regioni è vietato piantarlo.
Credi che il sacrificio della biodiversità sull’altare della produttività agricola e della sicurezza sanitaria sia anche un sacrificio culturale?

Credo che la normativa sia una corsa ai ripari giusta per la situazione di rischio fitosanitario presente, ma il problema è a monte ed è legato al tipo di agricoltura intensiva ancora molto diffusa a differenza di metodi alternativi, come la permacultura, purtroppo ancora di nicchia. La biodiversità è una ricchezza sia per l’ecosistema che culturale, è un valore importante quanto la sicurezza sanitaria e la produttività agricola.

L’installazione Biancospino Illegale, come tutte le opere d’arte che produco, non vuole essere espressione di una posizione specifica in materia, ma piuttosto vuole essere uno spunto per una riflessione più ampia sull’ambiente ed il rapporto uomo-natura. Le mie opere sono delle visioni che non veicolano mai un affermazione, tantomeno una presa di posizione su una normativa in atto, ma vogliono far scaturire delle domande in chi osserva.

foto: Marco Sfrevol Montanari (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Marco Sfrevol Montanari
(courtesy: Santarcangelo Festival)

A proposito di riti e sacrifici: la parata la definisci come “rito propiziatorio per nuovi cominciamenti”.

I riti come le icone di tutte le culture mi interessano, ne traggo inspirazione per formulare i processi di sintesi che producono i miei elementi visivi. Con ogni opera cerco di “inaugurare” un nuovo concetto e di avanzare con la mia ricerca artistica. Condivido la riflessione di Marc Augè quando dice che ogni opera d’arte contemporanea deve essere una “inaugurazione” e segnare, piuttosto che una novità, un nuovo inizio.

Quello che succede in un lavoro collettivo come quello dell’Èrba catíva è per me interessante per la diversità di tutti i soggetti coinvolti, la sua natura multidisciplinare è una “ricchezza culturale”, un’esperienza da cui si impara sempre qualcosa.
Il workshop Godeep come tutto il processo che ha portato alla parata fanno parte della modalità di lavoro che per me è molto importante. La parata è il rito finale di una comunità che ormai è compatta, si riconosce ed è determinata nell’azione che compie.

Com’è stato lavorare assieme a una compagnia storica come Motus?

È stato molto bello incrociare i nostri percorsi, credo di aver imparato molto di un mondo di cui per lungo tempo sono stato “spettatore”: il teatro contemporaneo e la performance. Mi interessano i progetti multidisciplinari e soprattutto le nuove sfide.
Con Motus c’eravamo incontrati nel 2010 quando ero stato a Santarcangelo per fare un dipinto murale e loro erano direttori artistici. Poi ci siamo conosciuti quando eravamo entrambi stati invitati a Centrale Fies, Dro nel 2012 per Drodesera “We Folk” e da allora ogni volta che ci incrociavamo ci dicevamo che sarebbe stato bello collaborare ma non avevamo chiaro come farlo.

La chiave per farci incontrare l’ha trovata Silvia Bottiroli, la direttrice artistica del festival di Santarcangelo dei teatri, quando ci ha invitato a costruire una parata insieme.

foto: Ilaria Scarpa (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa
(courtesy: Santarcangelo Festival)

Parliamo del workshop. So che inizialmente era pensato solo per quelli del territorio di Rimini ma che poi, viste le tante richieste, lo avete allargato anche a chi veniva da fuori.

Avevamo molte richieste anche dall’estero, abbiamo dato priorità alle ragazze ed i ragazzi del territorio.
Il workshop aveva due macro obbiettivi: avviare un percorso partecipativo per la realizzazione della parata L’èrba catíva per e far rivivere per un periodo l’ex cinema Astoria (che abbiamo chiamato A-storia), abbandonato per un decennio, alimentando un immaginario per possibili scenari futuri.

Che tipo di lavoro avete fatto?

Abbiamo creato dei gruppi di lavoro chiamati Gruppi di Affinità / Tavoli di Affinità suddivisi in: Musica, Performance, Pittura e costruzione degli oggetti di scena (maschere, bandiere e stendardi), drammaturgia, comunicazione e incursioni urbane, ricerca sul territorio (interviste e rapporto con gli abitanti) e movimento.

Alle prove di movimento, che sono state tenute giornalmente da Silvia Calderoni, hanno partecipato tutti gli iscritti al workshop, mentre agli altri gruppi hanno partecipato diversi soggetti a rotazione secondo gli interessi. Ogni sera ci ritrovavamo in cerchio per una riunione generale in cui tutti i gruppi riportavano l’andamento dei lavori.

Lo spazio cinema era autogestito da tutti i partecipanti al workshop in maniera orizzontale e man mano che venivano prodotti dei contenuti visivi si utilizzavano per l’allestimento. Il cinema ha mantenuto le porte aperte al pubblico per tutto il periodo di lavoro in cui gli abitanti erano liberi di visitarlo, a due giorni dalla conclusione del workshop sono stati presentati parte dei lavori realizzati durante una festa, per l’occasione siamo riusciti a rimettere in funzione il cinematografo di una delle due sale e abbiamo proiettato dei video sperimentali in pellicola che abbiamo realizzato durante il workshop utilizzando scarti di pellicole trovate al cinema.

foto: Serena Borghi (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Serena Borghi
(courtesy: Santarcangelo Festival)

Com’è stato recepito dai partecipanti?

In realtà il lavoro che è stato fatto ha toccato molti più “territori” di quelli prefissati. Inoltre sono venuti ospiti dall’AtelierSi di Bologna, dal progetto Mare Milano e l’Angelo Mai di Roma a condividere le loro esperienze.
Il workshop ha prodotto un collettivo di artisti Godeepers che hanno continuato a lavorare in forma autonoma e questa forse è una delle cose che mi hanno fatto più piacere di tutto questo lavoro.

La prima produzione dei Godeepers è un albun on-line dal nome GoDEEP [WHERE LIGHT AND DARKNESS CLASH] con le musiche prodotte durante il workshop Godeep al cinema A-storia e per la Parata.
Hanno partecipato a Godeep: Damiano Bagli, Simona Baro, Emiliano Battistini, Lucia Benegiamo, Carlotta Borasco, Iolanda Di Bonaventura, Viola Domeniconi, Julia Filippo, Francesca Fioraso, Diego Giannettoni, Francesca Giuliani, Kage, Biagio Laponte, Ileana Longo Goffo, Mattia Guerra, Valentina Marini, Francesca Macrelli, Federico Magli, Beatrice Monti, Filippo Moretti, Lucia Mussoni, Sara Oliva, Gianluca Panareo, Ondina Quadri, Caterina Paolinelli, Elena Ramilli, Sofia Rossi, Maria Giulia Terenzi, Michela Tiddia, Valentina Zangheri, Martina Zena.

Installazione e parata sono progetti dal forte valore politico, soprattutto in tempi di parate di protesta (ma anche di parate militari, spedizioni punitive…) e di caccia alle “erbe cattive” che arrivano coi barconi, che invitano al dubbio, che propongono nuovi modelli di pensiero (vedi l’attacco frontale e anacronistico contro quella che chiamano “ideologia gender”). Credi che un artista, oggi, debba necessariamente, se non schierarsi apertamente, comunque incentrare la propria opera su temi di questo tipo?

Credo che l’arte debba essere in primo luogo libera e, come dicevo prima, non veicolare un messaggio specifico ma visioni che portano altrove. Tuttavia la politica spesso è presente in ciò da cui l’opera trae ispirazione. Tutto sommato quando l’arte è totalizzante nella vita di chi la produce, riaffiorano le ispirazioni e le passioni. Far intravedere queste passioni è un’atto di sincerità e trasparenza. Un’opera d’arte a volte dà delle chiavi di lettura “altre”, non convenzionali, sul contemporaneo. Queste visioni possono cadere nel vuoto o essere un impulso che genera processi rivoluzionari ma sono conseguenze sul quale non si può avere né controllo né premeditazione.

L’opera per me ha sempre un messaggio “aperto” soggetto a libera interpretazione del pubblico che osservandola la completa in diversi modi quanti sono coloro che osservano. Forse l’atto politico più evidente è intrinseco nella libertà di espressione e di creazione svincolata e non assoggettabile.

foto: Serena Borghi (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Serena Borghi
(courtesy: Santarcangelo Festival)

Ne L’èrba catíva (l’an mór mai) si citano Pasolini, Eschilo…

Sì, trae ispirazione da testi con una forte carica politica, da alcune immagini e parole con una forte carica sovversiva, da Pilade di Pasolini, dall’Orestea di Eschilo ed in particolar modo dalla figura delle Erinni Furiose, “quella prole funesta della notte” che simboleggia anche la indomabilità della natura selvaggia.
Figure ribelli e difficili da incasellare. Presenze enigmatiche e misteriose come sono stati i performers della parata che hanno fatto irruzione nel centro del Festival di Santarcangelo.

Altre influenze sono state date dal manifesto Anarco-Queer e da testi di Emma Goldmann. All’arrivo allo sferisterio l’atto finale che ha compiuto la performer Ondina Quadri è stato quello di bruciare una delle bandiere che ho dipinto, raffigurante una nuvola. La nuvola in fiamme, che mi fa pensare anche ad un immaginario passaggio di stato fisico, accompagnava le ultime parole della parata: una citazione dall’Orestea tradotta da Pasolini.

Che sono?

Come spiegare che abbiamo rotto la catena che fa del Passato fonte di certezza,
La certezza di cui siamo sazi e insaziabili
La certezza che dal fondo dei secoli dà ragione di essere ad ogni istante atto della città;
La certezza che ci salva dallo scandalo…
Una certezza che si nutre di viltà, mediocrità e ferocia.
Ma a che serve una certezza fondata sul terrore?”
Voi non ci avrete mai!

foto: Ilaria Scarpa (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa
(courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa
(courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Serena Borghi (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Serena Borghi
(courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Serena Borghi (courtesy: Santarcangelo Festival)
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(courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Ilaria Scarpa (courtesy: Santarcangelo Festival)
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(courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Alice Bettolo (courtesy: Santarcangelo Festival)
foto: Alice Bettolo
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