Usare gli emoji nel mondo reale, per protestare durante le manifestazioni

Sono nati in Giappone ed esistono fin dagli anni ’90 ma è soprattutto grazie agli smartphone che gli emoji sono diventati sempre più importanti nella comunicazione contemporanea, tanto da non poter più essere semplicemente liquidati come “le faccine che usano i ragazzini”. Gli emoji, almeno a giudicare dalle ultime mosse dei colossi della tecnologia e della tipografia, vanno presi assolutamente sul serio.

Monotype, coi suoi 125 anni di storia alle spalle, ha recentemente acquisito una startup che si occupa di sticker ed emoji, mentre Unicode, il consorzio internazionale che assegna un codice numerico a ogni singolo carattere utilizzato per scrivere testi — compresi ideogrammi, geroglifici e lingue morte — in modo da renderli disponibili su ogni possibile apparecchio, al di là del software e della nazionalità, beh i rigidissimi signori di Unicode oltre ad aver inserito nell’ultima versione della loro Stele di Rosetta dell’era digitale svariati emoji stanno pensando di cambiare addirittura le regole in base alle quali finora gli emoji sono stati inseriti o scartati dallo Standard Unicode.

E mentre Apple ha aggiornato proprio in questi giorni il sistema operativo mobile aggiungendo la possibilità di cambiare colore della pelle e dei capelli ad alcune “faccine”, c’è pure chi ha usato questa contemporanea forma di Esperanto per fare politica, scendendo in strada durante la People’s Climate March, lo scorso 7 marzo a Londra, con dei cartelli che invece dei soliti slogan mandavano il loro messaggio attraverso gli emoji.

Ad avere l’idea non è stato un attivista qualunque ma Naresh Ramchandani, uno dei soci di Pentagram, tra i più importanti studi di design a livello mondiale.
Ramchandani, insieme alla sua squadra di designer, ha infatti deciso di creare delle “cartoline” formato gigante, gli Earthmojis, in modo tale da evidenziarsi dal resto dei cartelli dei manifestanti e «riflettere come i social media hanno cambiato il modo stesso di protestare, permettendo di esprimere dissenso anche online, oltre che per le strade».

Un colpo di teatro, certo, che però getta il seme e apre la strada a una nuova, potenzialmente virale, estetica della protesta. Una senza confini linguistici.

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