Confessioni di uno scrittore fallito

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Che te lo dico a fare?! Vale poco o nulla quello che ho scritto a pago, roba buona e poco buona, roba da sacchetto delle merendine o poco più, roba che a pensarci un po’ ti si strizza l’occhio come un tic. Roba da bollette, roba che per riempire un paio di cartelle ti ci fumi un paio di cicche o forse mezzo pacchetto, ché è dura parlare di materassi come se fosse l’ultima volta che hai creduto nel Signore; non glielo spieghi mica al quel committente che non ci sono frasi per descrivere un prodotto a cui rivolgi la tua attenzione solo quando ti ci stendi sopra.

Un po’ come le puttane, fai gli short- o i long time, dipende tutto dall’impresario. Ultimamente vogliono godere tutti con lo short. Ti pagano meno ma vogliono un bel lavoretto lo stesso.
Il lavoro lo devi fare con il sorriso, che le parole sennò mica si mettono in fila da sole, ci vuole comunque un po’ d’arte per riuscire a parlare del niente senza annoiare, per far credere che il tale albergo è il non plus ultra dei motel da due soldi o che il dato servizio è all’avanguardia nel suo campo come le esplorazioni spaziali americane lo sono state dopo la prima, vera e unica odissea nello spazio.

Ma non ci sono le musiche d’effetto e il ruotare lento e pacifico della nave, nessun monolito ti aspetta a fine pagina, ci sono invece le scadenze da raddrizzare, mille punti da far quadrare e tutti i confini dello spazio-tempo infinito dell’internet compulsivo da prendere per il bavero e dirgli: «Bel tomo, c’ho anche altro da fare!»

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Mica ci nasci con quella sensazione che ti strugge le dita, o perlomeno per me è andata così, prima i libri li leggi e impari, e poi solo dopo ti viene la voglia di dire la tua, che nessuno ti ha mai chiesto, sia chiaro, ma viviamo in tempi difficili ma ancora (per poco) democratici, dove uno può ancora svegliarsi la mattina e dire la propria opinione senza far torto a nessuno o facendolo forse a tutti. È il bello della mia generazione, dopo la fatica vera dei nostri vecchi siamo arrivati noi, quelli con grandi prospettive ma con un mondo che stava cambiando alla velocità della luce ad aspettarci, con i computer da mille milioni di pensieri al secondo a fare per noi lavori e operazioni che una volta ci volevano settimane e decine di persone.

E noi tutti a pensare che saremmo stati unici e invece, guarda tu il caso, ci assomigliamo sempre più tutti, con il culo attaccato alle sedie e il viso illuminato dai cellulari, tutti santi e poeti, artisti e scrittori, tutti illusi dalla vacuità di una società che non aspetta nessuno, che non divide con te i suoi fasti frementi e le sue sfumature di successo da Silicon Valley.

E scrivi e scrivi facendo il ghost, oppure il copy, se non l’author o il co-director e comunque mai meno del freelance writer ma niente forse è come sembra.
Se scrivi per la busta non scrivi davvero, impagini e basta, metti insieme senza sostanza, crei soltanto altro caos in mezzo alla marea di quelli che come te la mattina si svegliano, accendono il mezzo, spengono il cervello e cominciano a ticchettare.

Che oramai, se vuoi, vai come le mitraglie, puoi parlare dei cazzi tuoi al telefono e scrivere di una guerra di cui non ti frega un cazzo basta che il conta battute segni 450, puoi scrivere di cambi di pannolini e pappe senza averne esperienza, puoi cercare di avere successo ogni giorno mettendo insieme cose che comunque davvero non ti riguardano.
Non ci riuscirai mai! Perché a sedere accanto a te che scrivi ci sono mille facce e pagine che hai letto, che ti giudicano e ti chiamano per nome, ci sono le vere mani della scrittura che guardano con disprezzo al ticchettare venduto degli articoli da pageviews.

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A sedere accanto a te lo vedi Italo che semplicemente ti dice:
«Leggerezza — caro mio — leggerezza, ci vuole leggerezza, taglia, scomponi, ma sopratutto sottrai sottrai…».

E tu pensi:
«Che cazzo sottraggo, Italo, che a me per far numero mi ci vuole l’abilità di uno sherpa in cima alla vetta dell’Everest, non sono più i tempi del giro d’Italia, tu e quegli altri scanzonati minchioni ricevevate comunque emolumento per tirare avanti la carretta e raccontare un’Italia in ripresa. Qui di ripresa ormai, sembra, non ci sia manco quella del motorino, che pur essendo truccato non s’arrampica più neanche sulla salita veloce di questo mondo in picchiata…».

Ma è solo una favola e in fondo al tavolo, in mezzo ai miei scrittori russi preferiti, ai miei disperati scampati dai campi, ai miei reclusi, alle mie donne preferite, ai miei poeti esangui, ai drogati e alle puttane che ho amato, anche un Irvine scocciato che mi guarda e con una mano sulla capa pelata mi rimprovera scazzato:
«Su! Digli allora a quei cazzoni hipster per cui scrivi, maggior grana o gli spacchi il muso con due sonore sberle nel grugno! Non fare la femminuccia, accendi un’altra cicca e datti da fare minorato del cazzo!»

E tu a pensarci bene una cicca te l’accenderesti davvero, un’altra, l’ennesima, forse l’ultima, visto che come un cazzone da romanzo ti sei fatto venire un infarto a neanche 36 anni e la prima cosa che ti hanno detto è che se te ne fai un altro pacchetto la prima cosa bella che ti succede è che ai 40 neanche ci arrivi.
Regali inaspettati di gioventù, roba che pensavi di esserti lasciato alle spalle e che invece adesso ti tocca anche farci il callo e mentre continui a scrivere per quegli stronzi non hai neanche da trastullarti con l’amica fedele di oltre vent’anni. Vacca troia che merda.

Anche Hank scuote la testa, beve un altro sorso e mi consiglia una bella chiavata, con una puledra da stuffare per benino, per rilassarsi e trovare l’ispirazione, un giro all’ippodromo e una bella chiavata, ancora meglio. Tutto per dimenticare un lavoro che a volte sembra una prigione, da creatore da strapazzo di parole, una bevuta e una bella chiavata. Peccato che non giochi. Per la scopata ci si può sempre organizzare. Figli permettendo.

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Ma quando rialzi lo sguardo li ritrovi sempre tutti lì a fissarti con le loro facce, quasi tutte da morto, che ti chiedono alla fine se ne valga davvero fare lo scribacchino per cause che non ti competono.
Ed è forse per quello, per quelle facce da morto e per quelle di quei pochi vivi che ancora ti rompono le palle e per quei rarissimi che hanno ancora fiducia, per quelli che forse ne vale la pena, perché se il “prudore” alle mani non passa, vuol dire forse che non esiste medicina e che tutto questo scrivere non è altro che allenamento e come per gli atleti perdenti, i migliori, si impara soffrendo o si rinuncia cadendo, pur sempre con gloria. Forse.

Non si scrive solo per soldi, si scrive per passione, per maledizione, perché con le parole dette a voce non ci si sa fare, perché in fondo si vuole lasciare qualcosa, perché nella testa una voce ti spinge, perché i difetti sono belli se coltivati, perché forse si vuole stare seduti con quelli che hanno contato davvero nella tua vita, con quelli che ti hanno accompagnato e sorretto quando non c’era nessun altro a farlo. Per comparire un giorno nei pensieri di qualcuno e potergli finalmente dire: «Ce la puoi fare».

Ma non ce la puoi fare davvero con questo tempo infame che comanda e tiranneggia i tuoi pensieri, non sei una macchina social e non hai neanche un po’ di voglia di condividere con gli altri quello che pensi, non scatti foto per il gusto edonistico di farle vedere, non scrivi micro-frasi dal sapore intelligibile, non sai curare la tua immagine di ragazzo distratto e con il cervello offuscato da sempre mille, troppi, pensieri.
Non trovi sfogo nella bacheca tua o degli altri, perché di bacheche valide ne conosci solo una e ci sono gli annunci, di solito, di chi come te è in cerca di qualcosa, che non si compra e che forse al massimo si perde, per le strade della vita e della disillusione. Ma che ci vuoi fare?! Che te lo dico a fare?

Di mestiere scrittore di parole vuote, fatte per abbindolare, preso in prestito da chi mi vuole pagare, con il buono sconto da obliterare — fai tre pezzi e due te li voglio pagare — che vuoi che sia in fondo pensare?

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