Psychedelic Sex: un libro raccoglie le copertine e le pagine delle riviste per adulti nell’era della psichedelia

La psichedelia, le contestazioni studentesche, le rivendicazioni femministe, il sesso libero, gli acidi, gli occhi vitrei, gli sguardi persi, i corpi nudi, il pelo selvaggio (che sia lodato, al contrario delle terribili depilazioni, totali o virtuosamente “disegnate”, che sembrano l’equivalente delle barbe scolpite dei tamarri).

L’immaginario e l’estetica degli anni ’60 sono indissolubilmente legati alle esplorazioni lisergiche e alla rivoluzione sessuale che animarono e resero irripetibile quel periodo.

A raccontarlo, da un punto di vista se non inedito comunque in larga parte sconosciuto al grande pubblico, è un libro pubblicato recentemente da Taschen e intitolato Psychedelic Sex.

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Il volume raccoglie infatti copertine e pagine di svariate riviste erotiche e pornografiche dell’epoca, quando in California la nascente industria del porno venne contaminata dalla cultura hippie, che negli stessi luoghi e negli stessi anni stava fiorendo, e nelle riviste per adulti c’era una gran richiesta di “veri fricchettoni”.

Impossibile non perdersi nelle oltre 400 pagine di immagini, tra colori acidi, libertà sfrenata di sperimentare e al contempo una certa ingenuità — lontana anni luce dall’artificiosità odierna, non solo in ambito erotico-sessuale ma anche grafico.

E l’idea che ti fai, che poi è la stessa che esce da libri e film e booklet di dischi anni ’60 e ’70, è che il sesso psichedelico sia sinonimo di ore di piacere cosmico, l’intero corpo trasformato in organo sessuale iper-ricettivo e intelligente, l’unione totale dello spirito con la carne, l’orgasmo come conquista del divino, la successiva trasformazione in dio o semidio.

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In realtà, alla prova sul campo, quella appena descritta è una prospettiva a dir poco ottimistica.

Nel mio periodo psichedelico, quello in cui ho sperimentato svariati modi per entrare nella più totale paranoia, conoscere ogni anfratto dei muri davanti ai quali mi “incagliavo” per interi anni luce, vedere gli estranei come sproporzionati esseri con maschere mostruose che mi si scioglievano davanti (cercando al contempo di non dar loro a vedere che li avevo scoperti, che sapevo che in realtà non erano umani, dunque simulando malamente un contegno che, visto dall’altra parte, doveva risultare particolarmente comico), in quel periodo lì ho trovato pure il tempo — che comunque non mancava mai, misurandolo appunto più spesso in anni luce che in ore — per provare a fare sesso sotto LSD.
Due volte. Una con un mio amico, l’altra con una ragazza.

Tecnicamente quello col mio amico non fu sesso: eravamo vestiti, eravamo in pubblico, eravamo esattamente allo stesso grado di allucinato stato d’animo quando, davanti a un tizio che vendeva poster, ci fondemmo tra noi, semplicemente appoggiandoci l’un l’altro.

Io entrai nel suo cervello e lui nel mio. Potevamo ascoltare i nostri pensieri, sentivamo di stare in un altro corpo ma lo controllavamo. E provavamo piacere.

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Riemergemmo dopo minuti/anni luce e tornammo ciascuno nel proprio corpo con lo sguardo denso di piacere di chi ha appena vissuto un’esperienza fuori da questo mondo, che subito celebrammo raccontandoci a vicenda (con la benedizione del tizio dei poster, che credo fosse piuttosto curioso) le sensazioni provate — spaventosamente identiche, tanto metterci addosso mille interrogativi che poi però andarono a schiantarsi con la tipica incapacità di chi è fatto di acido di mantenere l’attenzione su alcunché e dopo qualche istante c’eravamo già allontanati, ognuno alle prese coi suoi viaggi.

Quando invece fu sesso anche dal punto di vista tecnico, fu appunto la suddetta, totale mancanza di focus a complicare le cose.
Perché il — ehm — coso, laggiù, quando tu perdi l’attenzione, lui perde una cosa che pure fa rima con -zione. E se nei brevi istanti in cui ogni neurone è focalizzato sul “dolce su e giù” — per citare l’Alex di Arancia Meccanica — allora sì, allora ti fai davvero un’idea di che significhi esattamente la musica di Hendrix o la multicolore “porta delle stelle” di 2001: Odissea nello spazio.

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Basta però un minimo rumore, una luce che arriva da chissà dove, la nota di un pezzo a spostare il trip verso altri lidi, e allora il sesso — inteso nella sua totalità, come gesto meccanico, come esperienza sensoriale, come comunione con l’altro — crolla all’improvviso. Implode.
E ti ritrovi, dopo qualche minuto/anno luce, a chiederti che ci stai a fare, là sopra, chi è quella, cos’è quella cosa macilenta e vomitevole che sta fagocitando il tuo amico di una vita (con qualche puntatina paranoica pure verso domande esistenziali del tipo: lo controllo davvero io il mio pene? È il mio? Lui pensa? Lui sa?).

Sono passati più di 15 anni da allora. E mi chiedo ancora: che fine avrà fatto il tizio dei poster? Che vita ha vissuto? Li avrà poi venduti tutti i poster? E, poi: che cavolo di musica c’era, in casa, quando io e quella ragazza provammo e riprovammo senza successo a fare l’amore, guardandoci sospettosamente più spesso di quanto non riuscimmo a divertirci, ritrovandoci alla fine come due estranei impauriti pieni di vergogna per i nostri rispettivi corpi?

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