I puzzle a gradienti colore

Il primo puzzle rappresentava un paesaggio andino di anonimo spagnolo del XIX secolo, settecentocinquanta pezzi. Mia madre era l’architetto e il capocantiere, io uno scalpellino. Le mie mansioni erano solo servili: raggruppare in un angolo tutti i pezzi celesti, cercare nella scatola un certo pezzo trilobato, orientare diversamente il coperchio che riproduceva l’immagine. Con didascalico zelo mia madre commentava il proprio operato per rivelarmi il metodo che lo sottendeva: non rimestare caoticamente nella scatola ma scrupolosamente scostare, rivoltare, isolare: suddividere certe classi di pezzi per colorazione o per grana, allogandole in tazze, pentolini, piattini; deporre dolcemente il pezzo nella sua sede senza volervelo incastrare; comporre prima la cornice poi le figure più facili incominciando dai loro contorni infine i cieli ed i prati partendo dalla linea del loro confine; sapere quando smettere di ostinarsi su una determinata zona per aprire un fronte novello; ricordarsi che di norma un pezzo quadrilobato cade in un quadrato centrale di sedici pezzi per lato; alternare lo sguardo negativo allo sguardo positivo […]Michele Mari, “Certi verdini” (tratto da “Tu, sanguinosa infanzia”, Mondadori 1997 / Einaudi 2009

Finestra aperta sui ricordi d’infanzia, occasione per riflettere sul tempo e sul senso della vita, il racconto di Michele Mari è anche una sorta di Manifesto (poetico e intransigente) sull’arte di fare puzzle, arte a cui applicarsi in gran segreto, preferibilmente quando si è oberati di impegni, con l’intento di distruggere il risultato appena inserito l’ultimo pezzo, a mo’ di mandala (sia Mari che sua madre — Iela Mari, celeberrima illustratrice e autrice di libri per bambini — disprezzano chi lascia una puzzle completato in bella mostra sul tavolo, o “delitto” ancora peggiore, osa appenderlo a una parete e li chiamano addirittura “depravati”).

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Diventati sempre più abili, i due facevano trovavano troppo facili i puzzle da “soli” 12.000 pezzi. Si divertivano coi 25.000, poi si complicavano la vita rimescolando assieme pezzi di due puzzle identici, mettevano le tessere a testa in giù e li completavano così, arrivando all’astrazione totale delle tavole capovolte realizzate al buio, con la sola sensibilità delle dita, aggiungendo pure un coefficiente di ulteriore difficoltà, indossando guanti “per mortificare le virtù dei polpastrelli”.

Dubito che abbia mai letto questo racconto, il designer americano Brice Wylner, ma in quanto a puzzle astratti ha dato il suo contributo realizzando per Areaware — marchio di base a Brooklyn che produce oggetti per la casa, giochi e articoli da ufficio — due scatole in cui non c’è alcuna immagine da ricostruire ma solo delle sfumature di colore.
Certo, gli appena 500 pezzi farebbero gridare allo scandalo Mari e sua madre, ma per chi comincia può comunque essere una sfida interessante.

I due set fanno parte della nuova collezione del marchio, in uscita nei prossimi giorni.

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