Skinhead, an archive

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Ho sempre considerato serie e degne di rispetto quelle sottoculture capaci di sfuggire alle ridicole definizioni, alla “gabbie” create dai media per spiegarle alle masse, e alla moda, che con le sue lunghe e avide mani si appropria di alcuni stilemi per poi realizzarne stupidi “bignami” da rivendere a caro prezzo, spogliando l’estetica dal suo apparato culturale.

Pensa agli hipster: una sottocultura artificiosa che ha già da tempo sfondato i confini della nicchia per entrare nel mainstream.
Pensa al punk, saccheggiato da decenni e ormai quasi rassicurante. Pensa ai dark, ai loro cugini goth, alle infantili derive emo… Tutto già incasellato, assorbito, triturato e dunque de-potenziato.

Ma c’è una sottocultura, ambigua fin dalle origini, che ha sempre corso più veloce di ogni tentativo di catalogazione, che ha eluso gli “schemini” delle pagine dei quotidiani, le passerelle delle sfilate, le lezioni di vita degli editorialisti. È quella degli skinhead, che per il grande pubblico, soprattutto qui in Italia (almeno finché non è arrivata la serie tv This is England) è sempre stata sinonimo di nazi-skin e dunque guardata con timore e sospetto, stigmatizzata senza nessuna voglia di andare ad approfondire.

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Ricordo ancora le spiegazioni che uno dei miei migliori amici, durante la sua fase skin, quand’eravamo semplici ragazzini di provincia curiosi e voraci di letture, suoni e culture, doveva dare a chi gli dava del fascio. A lui poi, che chissà per quale antico retaggio genetico sembrava nordafricano!
Ma anfibi, pantaloni skinny, Fred Perry, bretelle, basette e testa rasata (quella skinhead, in quanto a canoni stilistici, è una delle più rigide e definite, tra le sottoculture), nella nostra pur tollerante cittadina, facevano scalpore. E le frequentazioni al circoletto anarchico, la musica ska a tutto volume, intervallata a pezzi di musica Oi! o northern soul quando andavamo in giro in macchina non facevano che confondere ancora di più le idee e quindi a spaventare ulteriormente.

Vaglielo a spiegare, a chi compra Repubblica e guarda i Tg, che la galassia skinhead è fatta sì pure da estremisti di destra (che sono arrivati dopo, visto che gli “original skinhead” furono un’evoluzione nata nelle periferie inglesi dall’incontro tra i mod e i giamacani “rude boys”) ma che quella è solo una parte, una deriva, di una cultura che è riuscita a contaminare il punk e il mondo gay, i nazionalisti e gli anti-fascisti.

E se già nel ’91 uscì uno splendido libro a raccontare per filo e per segno origini, storie, evoluzioni ed estetica skinhead — Spirit of 69: Skinhead Bible, di George Marshall — lo scorso dicembre l’editore indipendente inglese Ditto Press ha dato alle stampe un imperdibile (e per questo già andato quasi esaurito ed è rimasto solo in una costosa edizione limitata firmata dall’autore) volume intitolato Skinhead: An Archive, che mostra l’incredibile collezione di Toby Mott, artista ed ex-skinhead che negli anni ha raccolto un’impressionante numero di fanzine, poster, foto, ritagli d’epoca che partono dall’Inghilterra degli anni ’60 e arrivano agli anni ’80, attraversando quindi ogni singolo aspetto dell’universo skinhead: letteratura, musica, cinema, grafica, simboli, ultra-destra, anarchismo, ultra-sinistra, femminismo, cultura queer…

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foto via Antenne Books e Ditto Press

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