Di senzatetto, paraculaggine, impegno civile, memoria corta e soldi facili

Premessa: non ho saputo resistere.
Il problema mio è che sulle cose spesso ci ragiono su molto, forse pure troppo, focalizzo attenzione e concentrazione su particolari e assonanze che neanche varrebbe la pena di ricordare. Ma è pur sempre il ricordo a fare di noi quelli che siamo. L’insieme di quello che abbiamo vissuto è quello che siamo adesso, tra un minuto, scoccato il secondo, non saremo probabilmente più quelli di prima, una parte di noi persino a livello molecolare è cambiata.

Molto probabilmente una volta che questo pezzo si sarà scritto quasi da solo, rimpiangerò di averlo fatto, una volta che Simone o Ethel l’avranno pubblicato vorrò fare delle aggiunte, limare qualche verbo, rifinire qualche frase, cercare di accorciare i periodi che la mia professoressa del ginnasio mi soleva dire che erano enormemente lunghi e tortuosi. Come si può ben vedere non sono molto migliorato, i miei periodi rimangono lunghi, la virgola forse ho capito dove metterla, ma ignoro ancora ancora la sensazione di porre con cura e soddisfazione il suo compagno più grande e scafato: il punto e virgola.

Con i pensieri a volte dovrei seguire la stessa logica e cercare di mettere una stop, una breve interruzione al flusso che spesso mi accompagna ma complice una notevole quantità di tempo, una passione sconfinata per il ragionamento, anche fine a se stesso, amici vecchie e immaginari con cui discutere delle cose della vita, nello snocciolar questioni trovo cura e benedizione dagli affanni del quotidiano.

l'articolo su Slavik uscito su Frizzifrizzi il 5 novembre scorso
l’articolo su Slavik uscito su Frizzifrizzi il 5 novembre scorso

Tutto sto pippotto infinito per dire che non mi sono andati tanto giù gli articoli apparsi a destra e sinistra per il web sul barbone fashion, pardon, sul senzatetto, sul clochard, parola che rende lieve lo stesso concetto, su quell’operazione furba e marchettara che è oggi la rappresentazione dell’altro, meglio se sfigato e con pochi soldi in tasca. Meglio se dopo un po’ scompare e si porta via con sé, non il mistero, ma la sua stessa presenza, per non permettere a nessuno di farci su un pensiero, per non cercare mai di immaginare di essere noi la nuova bestia della fiera. Dell’informazione e della vita.

Le cose vanno così, ultimamente. Le battaglie si combattono a colpi di like e cartelli di speranza su Twitter ma tutto passa alla velocità della luce e ogni dramma, situazione difficile viene vissuto solo come intrattenimento, come un breve intermezzo in cui l’impegno civile si confonde e si perde tra mouse e tastiera.

Circa un anno fa una bella campagna dell’agenzia Publicis Singapore per il progetto Crisis Relief Singapore, Liking isn’t helping, riassumeva bene con immagini forti e didascalie altrettanto funzionali al messaggio che non sarà un like o un tweet a salvare la vita di un bambino nelle zone di guerra, non sarà un gesto semplice espresso dalla propria zona di comfort a cambiare le sorti di chi in quel momento si trova davvero a vivere una situazione difficile e senza speranza.

Cliccando su “mi piace” non salverai un bambino dalla guerra, condividere non ti servirà a portare via una donna da un uomo che la maltratta e un tweet non ferma il diffondersi di malattie e carestie.

Su Youtube è tutto un fiorire di quelli che vengono definiti “esperimenti sociali”, ragazzini più o meno svegli che con una telecamera — o più di una, a seconda dei mezzi — creano situazioni in cui l’interazione con lo sfigato di turno monetizza l’intera esistenza di vita di un individuo in pochi minuti. Il format è collaudato e ormai ha preso campo perché il buonismo da quattro soldi, specie quando maschera l’avidità di fama o denaro, rende bene.

Per ogni buona azione “disinteressata” salgono le iscrizioni al canale, salgono gli introiti pubblicitari, sale la probabilità che attraverso un investimento minimo il proprio canale, la propria crew riceva in cambio ben altro tipo di benefits.

Giusto per capire: quando un video su Youtube viene monetizzato genera circa un dollaro ogni mille visualizzazioni complete della pubblicità che viene mostrata prima del filmato vero e proprio. Fatti i tuoi conti.

Non penso di essere l’unico a pensare che tutti questi “esperimenti” siano solo un mezzo per raccogliere consenso, like, visualizzazioni e share del proprio lavoro, quello che continua a disturbarmi è come questo genere di sfruttamento dell’altro sia accettato a cuor leggero.
Anche se il barbone di turno riceve denaro, la cameriera viene omaggiata di una lauta mancia, il disperato vince alla lotteria truccata, si tratta sempre di una cavia che viene ricompensata esclusivamente per la sua performance.

Il premio, il ringraziamento, la donazione, sono solo parte di uno schema volto a commuovere, creare interesse, fare notizia, studiato per stimolare l’empatia dello spettatore.
Trovo che creare intorno alle vite degli altri questi sketch alla Truman Show sia profondamente irrispettoso per una vera convivenza all’insegna del rispetto e l’aiuto reciproco. Il rispetto, quello vero, lontano dalle telecamere, lontano dal pubblico è ben altra cosa. Probabilmente però sono solo io che vedo del marcio in Danimarca.

Ti ricordi di Kony 2012? Che fine ha fatto ‘sto famoso Kony ? Come direbbero a Roma: ma chittesencula!

Partiti alla grande con milioni di visualizzazioni e milioni di gadget da quattro soldi ma venduti a caro prezzo alla fine pare che Kony sia stato dimenticato ma, Invisible Children risulta ancora essere un’associazione dalla scarsissima trasparenza finanziaria e dal portafoglio facile quando si tratta di spendere in non meglio precisate attività di rappresentanza.
Avevi comprato il kit dal design accattivante? Ecco adesso se lo hai ancora friggilo!
Oppure puoi passare dal loro modernissimo shop e comprarti ancora qualche bella cianfrusaglia a un paio di centoni.

Il vero motore di tutte queste situazioni è convincere chi sta guardando di partecipare a qualcosa di più grande di lui, spingendo l’acceleratore con belle musiche, belle foto e belle situazioni di redenzione.
Il fatto che il barbone fashion sia scomparso dalla scena è già stato dimenticato dopo pochi istanti che hai letto la notizia, quello che rimane impresso nella memoria della gente è che il fotografo X, con una grande intuizione, un pronto spirito di osservazione e una macchina fotografica da tre stipendi e mezzo, si è fatto un nome. A spese di un disperato.

– Il fotografo X, ti ricordi? È quello che l’anno scorso ha fotografato il barbone che si cambiava tutti i giorni con i vestiti dei cassoni gialli, ma come li portava e li accoppiava lui quei vestiti nessuno mai!

– Ah lui! Ma è un genio!!! Adesso lavora per PincoPallo e mette in scena delle performance incredibili! A proposito ma il barbone che fine ha fatto?

– Boh, macchisseloncula!

E già perché alla fine è proprio così che va a finire questa storia, i personaggi principali sono diventati in un attimo attori di seconda fila per pian piano finire dissolti direttamente sullo fondo. La cameriera, il barbone, i profughi, le donne violate e gli altri mille esempi non fatti di questa storia sono solo comparse al servizio di un impegno civile da social network, da notizie da quarto d’ora, da statistiche d’incasso e ROI su investimenti prefissati.
Che poi è un po’ come la scommessa di Mortimer e Randolph Duke, per un misero dollaro, puoi giocare con la vita di una persona.

Poco importa il risultato finale, l’importante è solo il “qui e ora”, tutto a un colpo di click, tutto pronto a disperdersi nell’oblio delle cose — wow forte!!! – Oh mamma mia!! — e così sia.

La povertà con due spiccioli te la puoi comprare, con gli stessi due spiccioli la puoi addomesticare, la sensibilità invece non la vendono e non la compri da nessuna parte.

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