Reely and Truly: uno schizofrenico documentario sulla fotografia contemporanea

«Questo è un documentario sulle menzogne. Ma anche sulla natura della verità. Forse una menzogna su una menzogna. O la verità sulla Verità», questa la surreale (ma non troppo, a pensarci bene) introduzione di Reely and Truly, documentario sulla fotografia contemporanea girato da Tyrone Lebon, a sua volta fotografo, oltre che filmmaker, capace di far uscire il suo primo film su MTV a soli 19 e a collaborare, da allora in avanti, con tutte le più importanti riviste del mondo.

Tyrone è figlio, nipote e fratello d’arte.
Famiglia sui generis, la sua.

Il fratello Frank, 20 anni, per ora il meno celebre, fa il modello a tempo perso ed è uno dei protagonisti della vita notturna di Londra.
Il padre, Mark Lebon, è un fotografo di moda cresciuto in piena era punk e membro influente della leggendaria scena culturale londinese degli anni ’80 e ’90, amico di personaggi come Derek Jarman, Tom Dixon, Ron Arad e Judy Blame.
Lo zio James, scomparso nel 2008, studiò prima da parrucchiere ma poi approdò al cinema, alla fotografia e al graphic design, diventando pure il deus ex machina dietro il successo di un marchio come Stussy. Il nonno Philip, infine (chiudendo qua la parentesi famigliare), faceva il cantante e il chirurgo plastico, e nello studio che aveva in casa passavano star del cinema, della musica, dello spettacolo.

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Ed è proprio “papà Mark”, sbarbato poi barbuto, dentro una vasca da bagno o seminudo, in posa davanti a uno sfondo bianco con tutta la troupe attorno, ad aprire un viaggio allucinante nel cuore (di tenebra? A tratti l’atmosfera del film ricorda le scene più lisergiche di Apocalypse Now) della fotografia, un viaggio fatto di frammenti e distorsioni, voci e rumori fuori campo — tra cui un dialogo tra padre e figlio, Tyrone e Mark —, immagini traballanti e fotogrammi fuori fuoco.

Un film schizofrenico, Reely and Truly, girato con ogni formato possibile, dal Super-8 al 65mm (e tutto quel che c’è in mezzo) per una serie di interviste “in frantumi” ad alcuni tra i nomi più importanti nel panorama internazionale, gente del livello di Juergen Teller, Dick Jewell, Jack Webb, Sean Vegezzi, Jason Evans, Nigel Shafran, Fumiko Imano, Charchakaj Waikawee, Lina Scheynius, Nobuyoshi Araki, Takashi Homma, Ari Marcopoulos, Jill Freedman, Nick Sethi, Asger Carlsen, Arne Svenson, Petra Collins, Tim Barber, Peter Sutherland, Renee Cox oltre a due italiani, Mario Sorrenti e Lele Saveri.

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Dalle riviste patinate ai ghetti, dai tempi lunghissimi degli scatti in studio al “qui e ora” del fotoreportage di guerra, la fotografia è tutto e il contrario di tutto: una menzogna, la ricerca della verità, uno strumento per “alleviare l’onere della memoria”, lo spunto per parlare di tematiche assai più profonde e trascendentali…

Soprattutto — ed ecco cosa esce da questo splendido documentario di 30 minuti, che a quanto pare è solo l’inizio di un progetto più ampio che comprenderà un libro e un DVD con interviste più approfondite a tutti gli ospiti di questo primo video — la fotografia è una ricerca costante, attraverso l’immagine e la luce. Quale che sia il soggetto della ricerca — sé stessi, l’altro da sé, la bellezza, la morte, l’immortalità… — non ha importanza. L’importante è continuare a cercare, con qualsiasi strumento, in qualsiasi formato, su qualsiasi supporto.

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