Il triangolo delle bermude (intese come braghette)

In questi giorni, a Vicenza, in fiera, il consueto appuntamento per gli operatori del tessile. Pochi i visitatori, niente più il buffet dei tempi d’oro, aria cinico/depressa tra gli operatori. All’entrata del suo stand c’è il Momi, l’uomo che traccia gli scenari futuri del tessile scrutando nelle stelle, nei fondi del caffè. Semplicemente analizzando le copie commissioni dei clienti.
Per hobby, rappresentante.
«C’è la ripresa?», è la domanda ricorrente nei corridoi. La sua risposta seguita da una sonora risata «son qua da sta mattina, se lè passà no l’ò mia vista».

Davanti all’ingresso del suo stand, con fare un po’ beffardo, dondolando il suo orologio da taschino fino a far arrotolare la catena sul suo dito indice, invita le persone ad entrare.
«Venghino venghino signori». E poi a bassa voce: «più gente entra nel circo e più bestie vedrete».
«Questa non è mia», mi precisa dopo. «Era di Moira Orfei».

Prendiamo un caffè insieme. Il discorso cade sulla storia del primo maggio.
«Hai fatto bene a parlare di Prato e dei cinesi», dice, «è una vergogna che nessuno intervenga in questo maledetto triangolo delle bermude, questo triangolo che ha ai vertici Prato, Padova e Milano, che ha inghiottito ogni forma di legalità. Con i suoi laboratori tessili organizzati come lager, che sfornano un milione di capi al giorno. Per non parlare dei trasporti notturni con i furgoni carichi di abiti e di schiave».

Momi non parla a caso, ha un cognato poliziotto che gli racconta dei furgoni fermati di notte fuori dall’autostrada, pieni di capi da mettere in vendita e talvolta, nascoste accucciate dentro agli scatoloni e ai capi appesi, le ragazze da mettere in vendita pure loro. Tre o quattro giorni a Prato a cucire, poi a Milano nei fine settimana. A coprire i turni negli oltre 400 centri massaggi censiti a Milano. Questa sì che è flessibilità!

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Quelle che non servono a Milano vengono deportate a Padova, a fare le commesse nel mega-centro-grossisti di oltre cinquantamila metri quadrati fuori dal casello di Padova sud. Centro che fornisce di merci cinesi Veneto, Austria ed Europa dell’est.
I capannoni sono suddivisi in box con pannelli di truciolare e dentro vendono, mangiano, dormono e vivono (?) coi loro bambini i gestori e i commessi delle 2000 attività commerciali. Sicurezza, vie di fuga in caso di incendio, igiene, presenza di minori che non vanno a scuola… tutto a posto?

Ogni tanto un blitz, con elicotteri che rombano tutto il giorno, tipo Apocalypse now. Gran proclami il giorno successivo con foto-reportage, interviste sui tristissimi giornali locali, nelle quali il comandante dei commercianti si congratula con i vigili, poi con il comandante dei carabinieri, poi con le teste di cuoio (trattandosi di operazioni verso i cinesi penso useranno le teste di finto cuoio) e dopo una settimana tutto prosegue come prima.
Ecco perché parlo dei tristissimi giornali locali: invece di pubblicare acriticamente i comunicati stampa delle forze dell’ordine e delle associazioni dei commercianti, perché non chiedono conto dei risultati ottenuti che sono assolutamente inesistenti, visto che tutto prosegue come prima?

Il capo dei vigili del fuoco, se scoppia un incendio lì dentro, dovrebbe sapere che la colonna di fumo si vedrebbe fino a Pechino.
Chiunque ha avuta la sventura di imbattersi in qualche ente o ufficio pubblico, per un permesso riguardo ad una abitazione o ad una attività produttiva, sa che la trafila dei permessi non finisce mai! Lì chissà perché va tutto bene.

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Mi chiedo insieme a Momi quando finirà questa schifezza. Se non siamo stati capaci di fermare la delocalizzazione perlomeno mettiamo chi lavora in Italia in condizioni di lavorare con uguali obblighi e doveri.
È assurdo mandare truppe in Afghanistan a portare “la legalità”, quando noi non riusciamo a controllare piccole parti del nostro territorio.
Magari proponiamo una specie di Erasmus e vediamo se vengono giù i Talebani a darci una mano coi Cinesi!

Quando qualcuno capirà che è il momento di fermare questo scempio e di ripristinare la legalità, forse allora partirà una specie di nuovo ordine e si comincerà a parlare con rispetto di chi ancora si ostina a sporcarsi le mani per produrre il vero Made in Italy rispettando le leggi.

Momi mi dice dobbiamo vederci per finire la terza ipotesi sul tessile, quella più ottimista, auspicata da molti, che secondo lui da qualche piccolo segnale si vede.
Alcuni grossi marchi hanno annunciato l’apertura nei prossimi anni di alcuni stabilimenti per riscoprire e rilanciare le antiche sapienze delle lavorazioni artigiane, che stanno per andare perdute.

Ci vorrà poi una svolta culturale e qualcuno che spieghi che sì, certo, “lavorare stanca”, ma è alla fine l’unico modo per guadagnarsi il pane con dignità.
Bisogna riaprire le scuole tecniche e far passare la balla al miliardario spettinato che promette 1000 euro come sussidio di cittadinanza, spiegandogli che la paga di una operaia tessile supera di poco i 1000 euro.
Poi, nel caso che andasse in porto il sussidio da lui proposto, ci andranno lui e Casaleggio a convincere chi ha il sussidio a lavorare…

La conversazione con Momi è interrotta da un messaggio del telefonino: «deve ripetere il corso antincendio fatto tre anni fa».
Momi tira una saracca, «l’ho fatto tre anni fa, non go mia l’alzheimer, me ricordo ostia!».
Così va l’Italia, anzi non va…

Un messaggio

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