La prima guerra mondiale a colori

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I ricordi, se sono di seconda o terza mano, prendono i colori delle immagini che li hanno prodotti.
La mia primissima infanzia è in bianco e nero. C’ero io, tutto nudo, che facevo il bagnetto nell’acqua grigia e granulosa della vasca, sorretto dalle mani cenere di mia madre e da quelle latte di mia zia. Il giardino di casa mia — con la neve e gli alberelli striminziti che solo qualche anno dopo avrei guardato dal basso verso l’alto come fossero giganti — pareva una foto dei pretini Giacomelli. Mio padre, scuro come un nuvolone che porta pioggia e più giovane di me, nel ricordo innesca edipici transfert in cui io sono lui e mia figlia è me, tutti quanti congelati in un frame pieno di fantasmi: nell’istante decisivo dello scatto le scintille del corto circuito del tempo.

Nell’immaginario, al cinema, nei filmati storici, nelle foto dei libri, il bianco, il nero e le mille (altro che 50) sfumature di grigio sono i colori dell’immutabilità. Quello è (stato): non si cambia, non c’è via di fuga. A meno che non passi una mano magica da chissà dove a colorare, regalando la dinamica dimensione della possibilità, del mutamento, di un futuro probabile, plausibile (quindi l’io in bianco e nero dell’infanzia era qualcun altro? Quand’è che sono diventato a colori?).

Le guerre a colori a cui abbiamo assistito in tv o che abbiamo guardato sul web nei video morbosi dei giornali online sono guerre magari già concluse eppure infinite: da qualche parte continuano, in loop, a schiantarsi aerei sui grattacieli, a esplodere bombe, a scorrere fiumi di sangue, a sgretolarsi palazzi, famiglie, vite.
La Grande Guerra, invece, finora se ne è stata lì immobile. Nei documenti, nei ricordi, nei film. 1914/15—18: un segmento, con un inizio e una fine. Quello è stato.
Finora.

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Taschen infatti ha appena pubblicato un volume che raccoglie centinaia di scatti realizzati da gruppetto di fotografi che all’epoca testavano l’autocromia, procedimento concepito dai fratelli Lumière (sì, proprio gli “inventori” del cinema, quelli che hanno aggiunto la linea del tempo a quella della luce che impressiona una pellicola).
L’autocromia — che consiste nell’aggiunta di un sottilissimo mosaico di fecola di patate tinta nei tre colori primari al di sotto della gelatina fotosensibile — all’epoca era costosissima e di conseguenza poco utilizzata.

Non che le foto in questione fossero inedite. Ma per la prima volta sono state raccolte in un libro — intitolato The First World War in Colour — che ora esce a cento anni dall’inizio della guerra, trasformando un immaginario condiviso e statico in un surreale e dinamico remake, reso ancora più assurdo e spettacolare dal fatto che, necessitando di lunghi tempi d’esposizione, tutte le foto sono in qualche modo “costruite”, in posa. E sembrano appartenere più al mondo dei sogni che a quello della realtà, come se la Grande Guerra che conoscevamo in bianco e nero e questa, a colori, fossero due guerre diverse.

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