Arcade-nostalgia

Tappa obbligata ogni domenica, prima del catechismo, era la minuscola sala giochi del Centro della comunità, il bar gestito dalla curia dove, a differenza del circolo dei comunisti, i vecchietti che giocavano partite a carte all’ultimo sangue non bestemmiavano.

Oltre all’onnipresente flipper, ai gelati confezionati, alle caramelle Rossana, quelle alla panna, all’orzo e all’anice, ai “ciucci alla Coca-Cola”, alla cedrata e alla gassosa rigorosamente senza ghiaccio (“così te ne dà di più”), ai Mon Chéri e ai Boeri — che ne vincevi sempre in quantità industriale — c’era pure una piccola selezione di videogiochi: 200 Lire appena, distribuite con parsimonia da mamme e papà appena dopo aver controllato il vestito buono, per entrare nel magico mondo delle scazzottate da strada di Double Dragon, per imparare un minimo di geografia mentre arpionavi le bolle giganti di Pang, per far saltare in aria di tutto con Bomberman o incastarsi il cervello col classico dei classici, Tetris.

Nella saletta, affacciata sul panorama mozzafiato delle colline attorno a Jesi — un panorama di cui a quell’età non te ne poteva fregar di meno se avevi in tasca le tue 200 Lire — c’erano tre arcade e il flipper e nelle ore di punta, prima del catechismo e dopo la messa — ci si ammucchiava attorno a chi giocava in attesa del proprio turno, ciucciando caramelle, biascicando qualche tormentone della tv in cerca di risate facili, inconsciamente studiando il modo di parlare di quelli qualche anno più grandi, soprattutto cercando di carpire i segreti di quei pochi eletti che riuscivano a lasciare la loro firma (le canoniche tre lettere) nelle classifiche.

Ogni volta che arrivava un gioco nuovo, coi suoi high scores ancora immacolati, nella saletta calava un religioso silenzio mentre quelli di seconda o terza media — con le loro scarpe giganti, i primi segni d’acne esibiti come una medaglia al valore, qualcuno con un esotico accenno di baffi, tutti con un serbatoio inesauribile di parolacce e barzellette sconce che noi delle elementari perlopiù non capivamo (ma ridevamo lo stesso) — mandavano qualcuno di noi più piccoli a cambiare le mille lire al bancone (e fare da “corriere” era un onore), buttavano la loro monetina e si lanciavano alla conquista dell’ignoto, mille occhi puntati addosso mentre passavano dalle schermate introduttive al gioco vero e proprio, i lobi temporali anteriori destri di ciascuno pronti a registrare la musichetta e a farla risuonare ossessivamente in loop nei giorni a seguire, un oooooh di meraviglia nei rari casi in cui ci si trovava di fronte a giochi che avevano bisogno del misterioso quarto tasto.

La sala giochi, grande o piccola che fosse, negli anni ’80 era per molti una palestra di vita. E tra le più importanti: per alcuni persino davanti a famiglia e scuola. Seconda solo al campetto: c’era la sfida, c’erano le dinamiche di gruppo, c’erano i modelli da imitare, c’erano i bulletti, c’era un conformismo quasi soffocante ma al contempo ciascuno aveva un sistema di rituali — perlopiù stupidi — per esorcizzarlo, c’erano i primi furtarelli (“ho trovato 500 lire sul bancone…”), qualche botta data mica poi troppo per scherzo, le ragazze che talvolta passavano a vedere creando scompiglio tra gli ormoni dei più grandi. C’era un minuscolo assaggio della società massificata e rinconglionita dai media che ci avrebbe risucchiati tutti da adulti.
E allora come oggi l’importante era riuscire a mettere il proprio nome in qualche classifica e ritardare il più possibile il game over che prima o poi arriva sempre.

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