Veuve Clicquot Corrispondence Desk: intervista a Ferruccio Laviani

Durante la Milano Design Week, Veuve Clicquot ha ricostruito un fantastico e nostalgico ufficio postale per presentare la nuova collezione di prodotti del marchio, la Clicquot Mail Collection. Per l’occasione la casa vinicola di Reims ha collaborato con uno tra i più noti designer e architetti del panorama internazionale per realizzare il Veuve Clicquot Corrispondence Desk, un moderno scrittoio di Madame Clicquot, un pezzo unico progettato da Ferruccio Laviani, art director di Kartell dal ’91, di Emmemobili dal ’92, collaboratore di Foscarini sempre dal ’92 e con alle spalle un lunghissimo curriculum di consulenze e direzione artistiche per alcuni tra i marchi di design più importanti.
A raccontarci il progetto è lo stesso Laviani, che ho avuto il piacere di intervistare durante l’evento.


Hai avuto accesso all’enorme archivio di corrispondenza di Madame Clicquot quando hai iniziato a progettare lo scrittoio?

Sono andato a Reims e mi hanno portato in questa sorta di piccolo museo Veuve Clicquot che loro hanno sulle cantine e c’era tutta una serie di materiali su Madame Clicquot: mobili, oggetti personali, corrispondenza privata e di affari; io avevo anche visto una serie di immagini sui libri e quando si è parlato di questo progetto, che aveva come fulcro la posta, ho detto che sarebbe stato interessante per me lavorare attorno al suo scrittoio, un tavolo al quale lei passava un sacco di tempo, sbrigando la corrispondenza con clienti, gli amici, dove insomma svolgeva i suoi affari.
Era quello che è oggi per noi il laptop solo che a quello non si potevano piegare le gambe sotto.

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Ferruccio Laviani
(courtesy: Veuve Clicquot)

Tu scrivi ancora a penna o, come quasi tutti, ormai ti affidi solo a una tastiera?

Diciamo così, ho avuto un momento di scimmia da computer una decina di anni fa, quando ero andato un po’ oltre e il computer era diventato dominante, ma devo dire che non ho mai smesso, specie nella parte di ideazione, di schizzare a mano, che è una cosa che mi piace e che soprattutto mi dà l’idea di ciò che voglio fare e mi fa subito capire se ci sono o no, con l’idea.
Poi è logico che lavoro con il computer, perché rinnegare la tecnologia sarebbe sciocco, non è che mi metto con la piuma d’oca a fare i disegni, ma trovo che la manualità sia una cosa molto importante e devo dire che spesso e volentieri con i ragazzi che vengono in ufficio a fare i colloqui, anche se sono maghetti del computer, voglio vedere come disegnano, perché il fatto di trasporre con la mano un’idea vuol dire che tu hai capito come funziona il progetto.
È una forma mentale, più che la rappresentazione di per sé, che può essere fatta meglio o peggio, a secondo delle qualità della persona, ma per me vuol dire che stai capendo ciò che vuoi mettere in concreto, ciò che vuoi realizzare, mentre il computer salta completamente uno step.

Quindi riesci ancora a trovare il tempo per scrivere a mano?

Scrivere a mano è una cosa che mi piace molto, trovo sia molto bello ricevere qualcosa di scritto a mano, vuol dire che qualcuno ti ha dedicato del tempo, forse non più tempo rispetto allo scrivere una mail al computer, ma certamente un’attenzione in più.
Se devo dirla tutta, faccio più fatica a scrivere a mano una lettera, ecco lì mi sento un po’ somaro perché a forza di scrivere con la tastiera email e quant’altro—che è una cosa che in fondo detesto—quando poi mi metto a scrivere per esempio bigliettini di ringraziamento o cose del genere, la grafia è agghiacciante. Mi vergogno anche perché mi rendo conto di partire in corsivo e proseguire in stampatello… Il processo tra lo scrivere con la tastiera o a mano è completamente diverso.
Capita che se lascio dei bigliettini a mia madre, quando vado a trovarla a Cremona, lei mi rimprovera per come ho scritto.

VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Desk
(courtesy: Veuve Clicquot)
VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Desk (4)
(courtesy: Veuve Clicquot)

Secondo te ha ancora senso, oggi, avere una scrivania quando poi teniamo tutto in tasca o in borsa in uno smartphone o un tablet? Prima abbiamo smaterializzato musica e film, ora stiamo smaterializzando i libri e l’ufficio… Prendila come una provocazione ma credi che lo “studio” in casa, così come lo conosciamo, avrà ancora una lunga vita davanti a sé? Non si guadagnerebbe una stanza in più, togliendolo?

Sono molto legato alla mia scrivania, in ufficio. Ho il mio vecchio tavolo Memphis, che porto con me un po’ dappertutto. Certo, oggi il computer ci dà la possibilità di lavorare un po’ ovunque, basta avere la connessione. E questo ha certamente migliorato la qualità delle nostre vite perché ci dà più libertà, però io per esempio non sono uno di quelli che va in vacanza e ne approfitta per buttare giù delle idee, io quando vado in vacanza sono completamente disconnesso da quello che è il lavoro.
Neanche a casa lavoro. Non ho riviste di design, lì, né libri. Mi rilasso e faccio ciò che mi piace. Vado a compartimenti stagni perché non voglio che una cosa prevalga e domini sull’altra. Se ho un’idea mentre sono a casa la metto giù su un foglietto ma è una cosa istintiva e non predeterminata.
Invece quando sono alla mia scrivania, in ufficio, riesco a trovare la concentrazione. Per me è fondamentale. Il mio casino di fogli, i libri, il computer… Io sono creativo solo lì, al tavolo del mio ufficio, perché diventa una sorta di sancta sanctorum. La testa sa che lì devi lavorare, perché quello scrittoio è il tuo mondo. Poi è ovvio che puoi trasferirlo da un’altra parte, cosa che probabilmente Madame Clicquot non poteva fare ai suoi tempi.

Il tuo portfolio di progetti è molto eclettico ma è evidente un richiamo continuo alle arti visive, al design del passato (anche remoto), ai richiami esotici, dagli arredi settecenteschi alle avanguardie del ‘900. Il tutto reso iper-contemporaneo “per contrasto”, grazie all’uso di materiali inconsueti, accostamenti cromatici, linee che sembrano uscite da un programma di computer grafica…

Sicuramente nel mio lavoro ci sono sempre riferimenti storici. Ciascuno li porta con sé poi certamente si possono fare propri in tutto oppure in parte, reinterpretandoli. Non faccio tutti i miei lavori in stile, ma ci sono situazioni in cui questo linguaggio aiuta a capire in modo molto più diretto.
Io vengo da una cultura razionalista, come formazione. Quando studiavo, negli anni ’80, il design non era certamente quello a cui pensiamo ora. Sono stato anche più decorativo nel mio “momento Memphis”, per poi diventare un professionista che lavora seguendo i gusti, le tendenze, ma non necessariamente lavorando sul mobile storico.
Comunque sono molto affascinato dalla qualità del passato, dai pezzi di antiquariato. Ma non mi piace l’idea di riviverli tali e quali, altrimenti vivremmo ancora vestiti come nel ‘700 e ci faremmo gli inchini quando ci vediamo.

VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Desk (2)
(courtesy: Veuve Clicquot)
VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Desk (1)
(courtesy: Veuve Clicquot)

Quindi il tuo è un design che si basa sulla reinterpretazione.

Prendi l’icona del tavolo moderno per eccellenza che è il tavolo Saarinen: viene dal tavolo a gamba centrale stile impero, rielaborato ovviamente, ma la funzione e l’organizzazione sono rimaste.
Quello che cerco di fare io è prendere un riferimento storico percepibile da tutti e stravolgerlo, renderlo moderno, ironico, contemporaneo. Ad esempio spezzettandolo, o utilizzando la plastica, come ho fatto per la Burgie di Kartell, o assemblando un pezzo di mobile vecchio con un pezzo di mobile moderno come è stato per l’Evolution di Emmemobili, o per esempio nell’ambito dell’interior design come quando ho realizzato i negozi di Dolce&Gabbana e ci ho piazzato dentro il lampadario nero di Barovier&Toso invece che il lampadario in cristallo o vetro trasparente che eravamo abituati a vedere. Ho scelto il nero perché il loro DNA è nero, tra Sicilia, Barocco… Ma in quel contesto diventava altro.
Non mi vergogno a dire che prendo spunto da altre idee, anche perché in fondo io non ho mai inventato nulla, ogni idea viene dal mix di altre idee, da un flusso di informazioni, suggestioni che prendo e che poi elaboro e le faccio diventare mie, ma alla base di tutto questo certo c’è qualcosa che ho visto e ho percepito da qualche altra parte.

Che tipo di approccio hai utilizzato con il Veuve Clicquot Correspondence Desk?

Lo scrittoio di Mademe Clicquot non era uno scrittoio Luigi XV, ma siccome quello stile a me è sempre sembrato un po’ trasversale a tutte le epoche, in Francia, ed è universalmente riconoscibile anche da quelli che non sono dentro la materia, ho pensato fosse affascinante immaginare questa signora seduta a uno scrittoio come quello che ho progettato.
Intervenire su un oggetto in stile e renderlo contemporaneo, facendolo diventare qualcosa fuori dagli schemi, mi pareva il giusto omaggio da fare a una donna come lei, assolutamente tradizionale di pensiero ma proiettata nel futuro per modo di agire, fuori dagli schemi della sua epoca. Ai tempi le donne erano relegate ad un ambito famigliare e raramente si occupavano degli affari della famiglia.

VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Desk (5)
(courtesy: Veuve Clicquot)
VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Chair (5)
(courtesy: Veuve Clicquot)

La lista di aziende con cui hai collaborato durante tutta la tua carriera è davvero impressionante. Vuoi spiegarmi come fai a “inserirti” nell’attività di un marchio e ad interpretarne (quando non addirittura innovarne) lo stile attraverso progetti, prodotti, allestimenti?

Intanto i miei rapporti con le aziende sono molto lunghi, per esempio sono 24 anni che faccio l’art director di Kartell, per Flos ho lavorato a lungo, quasi per 10 anni, 20 nel gruppo Molteni. E potrei andare avanti con l’elenco…
Questo consente di riuscire a capire meglio e dare il meglio a livello di progetto.

Com’è stato lavorare con Veuve Cliquot?

Amo Veuve Clicquot prima di tutto perché, al di là del prestigio, è senza dubbio un brand molto visivo. Innanzitutto per il colore, quindi a livello professionale, per me è molto interessante. Oltre ovviamente al fatto che è un marchio di grande prestigio che chiunque tra i miei colleghi designer o architetti vorrebbe avere come interlocutore su un progetto, perciò mi affascina molto e credo che riusciremo a fare cose sempre più interessanti… È un brand molto forte e trovo che il fatto di utilizzare la sua tradizione per guardare avanti gli faccia onore, e che si avvicini anche al mio modo di lavorare.

VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Chair (1)
(courtesy: Veuve Clicquot)
VEUVE CLICQUOT & Ferruccio Laviani _ The Correspondence Chair (12)
(courtesy: Veuve Clicquot)

Ti ricordi qual è stato, se c’è stato, il momento in cui hai capito di voler diventare un designer?

Non c’è stato. In questo senso la mia vita sembra essere stata determinata dal caso, pare quasi una barzelletta. Io ho frequentato a Cremona la scuola per liutai, non perché volessi fare il liutaio ma perché era l’unica scuola di una città di 60 mila abitanti, tanto prestigiosa da far arrivare gente da tutto il mondo per frequentarla. Poi siccome in verità non ero portato né per la musica né per fare il liutaio—con grande dispiacere di mio padre—ho cambiato e sono passato, sempre nella stessa scuola, all’indirizzo Disegnatore Mobili, perché dopo il triennio professionale potevi fare un biennio classico per poter poi accedere all’Università. All’Università volevo fare l’egittologo e volevo andare a studiare lingue orientali a Venezia, ma a quel punto mio padre mi ha dato un fermo. Non se ne parlava proprio! Allora ho seguito gli altri miei compagni che andavano a studiare architettura ma non perché mi sentissi portato o fosse il mio sogno.

Quindi è stata tutta una questione di coincidenze.

Sì. Poi il caso ha voluto che incontrassi Castiglioni, che tempo prima era venuto a Cremona nella mia scuola per fare una specie di lezione insieme a suo fratello e mi aveva affascinato, e che poi incontrai di nuovo all’Università, dove insegnava arredamento e dove seguivo il suo corso.
A 23 anni avevo già terminato tutti gli esami di architettura e seguii un amico che si era iscritto ad una scuola privata di design, ma lo seguii perché eravamo diventati molto amici non perché anche a quel punto avevo deciso che avrei passato la vita a fare il designer…
Così è iniziato tutto. Prima sono rimasto affascinato dal Gruppo Memphis, poi all’ultimo anno di quella scuola privata mi dissero che c’era un certo Michele De Lucchi che voleva aprire uno studio per conto proprio e allora mi offrii di lavorare gratis e così ho iniziato a fare il designer.
Castiglioni, da professore, è diventato anche mio partner in alcuni progetti. Ad esempio il suo ultimo progetto è stato un lavoro a 4 mani fatto con me per Moroso, una poltrona che si chiama 40/80. E mi ha anche passato clienti molto importanti come Flos e De Padova: mi ha molto aiutato. Insomma per mia grande fortuna dal 1991 in poi ho collaborato con tutti i grandi vecchi e loro mi hanno insegnato tantissime cose. Tutto grazie a una serie di casualità…

Un oggetto di design “anonimo”, tipo le forbici o il cacciavite, che vorresti aver progettato tu?

Non saprei, sono talmente tanti che poi alla fine non ci presti mai davvero attenzione. Però mi piacerebbe inventarne uno nuovo. Che rimanga anonimo ma che abbia una funzione che oggi non c’è. Non ho ansia di presenzialismo, non è necessario che un oggetto abbia impresso il mio nome o la mia faccia. Ma sì, mi piacerebbe crearne uno ex novo e poi vederlo usare da tutti.

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