24.4.2014, Fashion Revolution Day

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La moda è un circuito in cui tutti vogliono entrare ma dal quale tutti vogliono estraniarsi. È bello quando sbrilluccica in passerella, è brutto quando macella animali e persone lungo il suo correre verso l’infinito.

Bisognerebbe comprendere che in realtà la moda è uno schermo, un telo sul quale si proietta la nostra società, così come avveniva un tempo per i dipinti: un giorno è Le déjeuner sur l’herbe e quello dopo è El sueño de la razón produce monstruos. Come tale, come schermo quindi, proietta davanti ai nostri occhi quello che siamo: una società dei consumi, dei consumi ossessivi, affamata e vorace, che fagocita milioni (di euro, di tessuto, di individui) dimenticando—spesso—che “siamo quello che consumiamo” e di conseguenza siamo quello che indossiamo. Un mondo così “modaiolo” e in apparenza superficiale (basti pensare che i libri sulla moda sono inseriti nella categoria divertimento invece che in cultura) non può che subire attacchi su più fronti, costantemente, più o meno noti al grande pubblico.

I primi sono stati gli animalisti, da decenni impegnati a lottare contro l’utilizzo delle pellicce (e dei pellami?!) nell’abbigliamento.
Difficile dimenticare, per quelli che per onori/oneri d’anagrafe hanno l’età per ricordarsela, la pelliccia “nature” di Marina Ripa di Meana. Un pezzo di storia. Poi è stata la volta, nel 2009, delle contestazioni contro la Benetton per le espropriazioni di terreni in Patagonia. Ultima, in ordine cronologico, la contestazione di Greenpeace, nel 2012, contro i grandi della moda, soprattutto i colossi del fast fashion come Zara e H&M, per l’utilizzo di materiali cancerogeni nella filiera.

photographer: Keiron O' Connor | model: Remi Black | shirt: Komodo | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla
photographer: Keiron O’ Connor | model: Remi Black | Shirt: Komodo | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla

Sulla scia di queste contestazioni, il 24 aprile prenderà corpo una nuova “protesta” che, come Greenpeace, sfrutta la “socialità” delle nuove generazioni per riflettere su una nuova tematica: non più (o non solo) l’eticità dei materiali e/o il rispetto per l’ambiente ma la qualità del lavoro e il rispetto per chi lavora. Una tematica forte, roba da parka e kefia, che ha preso lentamente piede dopo gli avvenimenti del 24 aprile dello scorso anno, quando il complesso produttivo di Rana Plaza, a Dhaka, in Bangladesh, è crollato e 1133 persone sono morte.

Non è più solo una questione di etica, è un problema che colpisce i brand al cuore, nella parte più rappresentativa: l’etichetta, la label.
È sempre stata una questione di etichette.
Ad esempio, quando compriamo la carne, guardiamo l’etichetta per controllare l’origine e il luogo di lavorazione (se non lo fai, forse è il momento di iniziare a farlo).

E poi? E poi basta, perché la nostra attenzione alle etichette finisce lì, nel momento in cui smettiamo di preoccuparci di quello che mangiamo.
E quando ci vestiamo? Quando ci vestiamo la guardiamo l’etichetta? Quando andiamo a fare shopping, guardiamo le etichette del capo che stiamo pensando di acquistare?

photographer: Keiron O' Connor | model: Eveline @ Supa Model Management | shirt: Arthur and Henry | pullover: From Somewhere | trousers: People Tree | sunglasses: General eyewear | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla
photographer: Keiron O’ Connor | model: Eveline @ Supa Model Management | Shirt: Arthur and Henry | pullover: From Somewhere | trousers: People Tree | sunglasses: General eyewear | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla

In realtà, forse, l’unica etichetta che attira subito la nostra attenzione è il cartellino con il prezzo appiccicato. O, forse, l’unico momento in cui ci accorgiamo delle etichette è quando dobbiamo fare il bucato, stiamo per caricare la lavatrice e non sappiamo che programma di lavaggio impostare, se scegliere misti, cotone o sintetici.
Ecco, in quel momento ti accorgi anche—forse—che il tuo capo super economico (e non solo) e super fashion viene dal Bangladesh o forse dal Vietnam. Ai più fortunati può capitare anche un capo Made in Romania.

Ma come, da così lontano? Sì, dall’altra parte del mondo, in una fabbrica con l’aria rarefatta e le luci sempre accese, in cui gli operai lavorano continuamente secondo orari strazianti dettati dalla necessità di produrre velocemente e a poco prezzo quello che domani dovremo indossare.
Tutto questo però non è scritto nell’etichetta. Non c’è scritto chi ha prodotto il capo, non c’è scritto in che zona del Bangladesh (o del Vietnam, o della Romania) quel cotone è stato tinto e poi tagliato. Non c’è scritto quanti operatori hanno lavorato al capo finito, quanti passaggi ha seguito la sua lavorazione. Non c’è scritto chi lo ha controllato.

C’è scritto solo il nome del marchio da cui abbiamo acquistato il nostro capo, la composizione e come lavarlo. Eppure se cerchiamo—in rete è più che sufficiente—le normative che regolano l’etichettatura dei capi, ci viene detto che “l’obiettivo del legislatore è quello di aiutare il consumatore finale”. Rimane in dubbio quale sia l’esigenza a cui ci vengono incontro con questo “aiuto”. Sarà quello di indicarci il programma giusto di lavaggio?

photographer: Keiron O' Connor | model: Portia @ Storm | corset and jacket: Katharine Hammet | jeans: Komodo | bag: Maitri | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla
photographer: Keiron O’ Connor | model: Portia @ Storm | corset and jacket: Katharine Hammet | jeans: Komodo | bag: Maitri | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla

In principio era il Couturier. Lui, tra le luci del suo atelier, circondato dalle sue sarte, tagliava e cuciva i corpi delle sue clienti.
Il dittatore della moda s’inventava gli abiti per le signore “importanti”, che li indossavano alle feste “importanti”, e lanciavano “la moda” del momento.

Fu proprio la stagione dei couturier a determinare l’importanza dell’etichetta nei capi. A partire da Poiret, passando per Chanel ed arrivando a Dior, la storia della moda è stata anche la storia delle etichette, le “label”, simbolo e segno dell’identità del brand.
Già, l’identità. Quella che è alla base della costruzione di un brand finisce per diventare un’arma a doppio taglio. Se un tempo distingueva i capi segnalando i luoghi di produzione (in genere gli atelier o le boutique) oggi è diventato uno segno negativo del fast fashion e della produzione di massa. Capi anonimi, riprodotti in serie, che portano addosso migliaia di impronte digitali, che fanno giri enormi, traversate da fare invidia ai più coraggiosi esploratori che la storia ricordi.

“Vanno, vengono, certe volte si fermano” cantava De André, come le nuvole si spostano, arrivano in Italia, vengono revisionati, tornano indietro. Pacchi regalo nomadi, girovaghi, viaggiano per mesi e durano una settimana.

photographer: Keiron O' Connor | model: Sierra Somers @ Profile Models | swimsuit: Ada Zanditon | jacket & leggings: Studio Jux | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla
photographer: Keiron O’ Connor | model: Sierra Somers @ Profile Models | swimsuit: Ada Zanditon | jacket & leggings: Studio Jux | stylist: Stevie Westgarth | make-up: Jo Frost | hair: Eliot Bsilla

Ma dal 24 aprile 2014 l’etichetta assumerà un nuovo significato: la moda diventerà una forza di giustizia, almeno negli intenti degli organizzatori della Fashion Revolution.
I designer, i commessi dei negozi di abbigliamento, i coltivatori di cotone, i lavoratori delle fabbriche, gli ecologisti, i ragazzi con la kefia, i media e chiunque sia interessato a ciò che indossa si riuniranno per sostenere una nuova idea di moda. Numerosi saranno gli eventi in giro per l’Italia e per il mondo a cui potremo partecipare, a partire dai selfie da promuovere sul nostro profilo social in cui indossiamo un capo al contrario per mostrarne l’etichetta.

La domanda sorge spontanea: ma chi c’è dietro questa iniziativa? Abbiamo capito come nasce e con quale spirito, risulta piuttosto difficile raccogliere altre informazioni riguardo l’evento e gli organizzatori. Spulciando la rete, con un po’ di pazienza, si può scoprire, leggendo qualche articolo fresco di “stampa”, che all’origine di questa iniziativa c’è un gruppo formato da industriali, attivisti, giornalisti, accademici esperti del settore moda e non solo, il cui scopo è catalizzare l’attenzione su tutto il sistema del fashion, su tutto ciò che va a formare la filiera produttiva, dalla coltivazione delle fibre naturali a coloro che attaccano le etichette, al fine di migliorare la qualità della vita di milioni di persone.

A capo di questo gruppo c’è Carry Somers del marchio Pachacuti, già nota per essere pioniera della moda etica in Gran Bretagna col marchio Fair Trade.
Non resta che segnare in agenda la data, giovedì 24 aprile, domani, mettere “mi piace” alla pagina Facebook dell’iniziativa (c’è pure quella italiana), scaricare la guida, caricare il cellulare e pulire l’obiettivo della fotocamera, scegliere la nostra maglietta più giusta (e più bella al contrario) e prepararci alla #fashionselfie dell’anno.

E tu, hai letto la tua etichetta?

Un messaggio

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