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Qualche giorno fa il sito americano BuzzFeed ha pubblicato un furbissimo video intitolato I’ll bet you have these photos on your phone realizzato—come titolo suggerisce—per provare che tutti abbiamo nel nostro telefono più o meno le stesse foto: il cane o il gatto di casa in qualche buffa posa, panorami identici gli uni dagli altri che ti sei ripromesso (invano) di stampare e conservare, albe, vedute fuori dal finestrino dell’aereo, preziosissimi appunti che hai paura di cancellare, foto sfocate dei concerti, ovviamente cibo cibo e cibo, e via di seguito.

Una carrellata di ovvietà che però centra il punto, in quanto ovvio e standardizzato è l’uso che tutti noi facciamo di quei prolungamenti tecnologici del nostro corpo chiamati con un ossimoro: “telefonini intelligenti”.

Se da una parte su ciascuno di quegli stereotipi si potrebbe scrivere un saggio sociologico sull’uomo contemporaneo, tra i vari generi di “foto che tutti hanno” mostrate nel video ce n’è uno che merita particolare attenzione: gli scatti nei camerini dei negozi.

Prima della massiccia diffusione degli smartphone la prassi era andare a fare shopping in gruppo, provare quintali di roba, spettegolare nel privato delle cabine, rivolgere alle compagne o ai compagni di shopping la fatidica domanda—come mi sta?—prima di continuare a provare altri quintali di roba e alla fine, eventualmente, portafogli o carta di credito permettendo, passare alla cassa e infine malignare sul commesso o la commessa simpatica quanto un cazzotto sui denti appena svegli.

Apple, Samsung e simili hanno cambiato per sempre—e molto più diffusamente di quanto non siano riusciti a fare i negozi online negli ultimi dieci anni o giù di lì (sia su Amazon che su eBay si può comprare sul web fin dal ’95)—questo genere di esperienza. Oggi è sempre più diffusa la pratica dello showrooming ovvero l’utilizzo dei negozi fisici come una sorta di showroom dove provare abbigliamento o accessori per poi però acquistarli online cercando tra le tantissime offerte disponibili (sull’argomento consiglio un bell’articolo di Michele Boroni uscito su Studio).

E grazie al telefono non servono più nemmeno le amiche. O meglio basta averne di virtuali, smaterializzate versioni di persone in carne e ossa che dall’altro capo del 3G ti consigliano e sconsigliano.

Per i più esibizionisti vanno bene addirittura intere legioni di followers o fan—su twitter, facebook o instagram—con cui interagire in tempo reale da dentro un camerino. Senza spettegolare, o almeno spettegolando silenziosamente.

Negli ultimi anni l’App Store di Apple e il suo omologo per Android, Google Play, si sono riempiti inizialmente di applicazioni-vetrina con le ultime collezioni, i video delle sfilate, le mappe per trovare i negozi, mentre parallelamente il modello del negozio multimarca—per decenni il più diffuso—ha continuato a perdere sempre più clienti e fatturato, schiacciato da una parte dalla concorrenza digitale e dall’altra dall’avanzata dei cosiddetti flagship store, i monomarca.

Poi, compreso che il binomio app + visita al negozio non era dei più vincenti (dopo un primo boom di download erano in pochissimi quelli che effettivamente usavano con regolarità le app dei vari marchi), le aziende hanno ben pensato di dare un senso a quelle vetrine virtuali costruendoci attorno dei negozi pure virtuali. E per l’utente l’esperienza dell’acquisto “mobile” è diventata finalmente completa—e solitaria!—, capace di attraversare le vari fasi che precedono e portano all’acquisto:

· news e contenuti (awareness e familiarity)
· gallerie e video per mostrare i prodotti (consideration)
· negozio “in app” per acquistare (decision e purchase)
· possibilità di condividere sui social network il proprio acquisto, la vera ciliegina sulla torta, che chiude il cerchio dando modo di utilizzare il cliente pagante come mezzo di pubblicità gratuita ed innesco per l’agognata “conversation” attorno al brand.

A questo punto però il problema, almeno per l’utente, diventa la frammentazione. Telefoni pieni di applicazioni, dita che s’affannano tra schermate e app—la foto del capo indossato in camerino, i consigli degli amici via sms o iMessage o facebook, i consigli degli amici di pixel su Instagram, l’applicazione del marchio, il browser per cercare offerte online, l’eventuale acquisto…

Ed è in questo touch-delirio che arriva Jaqard, applicazione per iPhone sviluppata dalla società veronese EMS Style che debutterà nei prossimi giorni sull’App Store.

A metà tra negozio online e community, Jaqard—il nome è un omaggio all’inventore francese Joseph Marie Jacquard, che nei primi dell’Ottocento creò l’omonimo telaio, prima macchina della storia ad utilizzare una scheda perforata e dunque considerato come l’antenato del computer—permetterà agli utenti di caricare foto di un capo e ricevere consigli per gli abbinamenti, avendo a disposizione un enorme catalogo che mette insieme i prodotti provenienti da alcuni tra i maggiori negozi online (si parla, tra gli altri, di Topshop, Levis, Gap, Hilfiger, Asos, Banana Republic) con la possibilità di acquistare direttamente dentro all’applicazione, rendendo in questo modo “social” (ma paradossalmente sempre più solitaria) ogni singola fase d’acquisto.

In pratica un modo per accelerare ulteriormente la virtualizzazione dell’esperienza-shopping, aprendo il sempre più inutile camerino (farà la fine delle cabine del telefono?) ad un’intera community. Con i pro e contro che questo comporterà, in un mondo dove tra le varie “forbici” che s’allargano, c’è pure quella del momento della scelta, della prova e dell’acquisto di una merce, tra le autostrade fatte di bit e gli enormi magazini dei grandi store da una parte, e dall’altra le ditate sulle vetrine dei piccoli negozi in carne e ossa mattoni e scaffali che rischiano l’estinzione e che sopravviveranno solo a patto di riuscire ad amplificare la “fisicità” del prodotto e di tutto ciò che c’è attorno, puntando solo sull’eccellenza e sull’artigianalità, a patto poi di saperle pure comunicare e vendere.

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