Memorie dal sottoscala | Il sale

Questa è la storia di un ragazzino che pratica onanismo fissando dei fenicotteri rosa.
No, non proprio, cioè sì, ma solo in parte.
Ci tenevo a specificarlo perché è un elemento che  mi ha ricordato di quando un’amica, che per comodità chiameremo Eleonora Duse, mi ha costretta a guardare Pink Flamingos.
Oltrepassata la parentesi fenicotteri, questa è la storia di una famiglia, e, come è noto al mondo dell’editoria almeno dal 1877, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Il modo in cui lo è la famiglia protagonista de Il Sale, è un modo sporco di sabbia bagnata, fastidioso e molesto.
Il Sale, è la prima opera tradotta in Italia dalla casa editrice Neo del trentaduenne francese Jean-Baptiste Del Amo. La storia è quella di Louise che è anziana e vedova di un uomo difficile [leggi: terrificante], ha male alle mani, e organizza una cena per i figli Jonas, Albin e Fanny; ed è la storia di Jonas, Albin e Fanny, che alla cena non hanno molta voglia di andare, ma si preparano, pensano, e ricordano.

Gli attori di questa giornata, voglio avvertire, non sono simpatici, e ci appaiono artefici delle loro infelicità in modo così palese da risultare meritato. Per quanto mitigata dal vento e da paesaggi pieni di luce, la sgradevolezza dei pensieri pesanti è una costante, ma la ragione principale di questo disagio è che a un certo punto il lettore avrà trovato almeno un particolare a sua forma tra le righe, che improvviso avrà fatto germinare qualcosa di simile all’indulgenza, al bè ma in fondo può capitare a tutti di essere deboli, ciechi, incapaci di reagire, aggressivi, supponenti e stupidi, di rovinare tutto e pensare che stavolta non si torna indietro.
Ed è peraltro vero, a volte non si torna indietro, e a volte non c’è consolazione, e neanche salvezza.

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