«La maglieria italiana è la migliore del mondo, lo sanno tutti. Ed è un peccato che, con tutte le eccellenze che avete, molti marchi italiani vadano a produrre all’estero. Mentre per noi americani la qualità italiana è irraggiungibile». Ipse dixit. Prendete nota, avidi delocalizzatori: a parlare è un gruppo di giovani designer newyorkesi che da 6704 km di distanza (quella che c’è tra la Grande Mela e Firenze, dove li incontro nel loro stand al Pitti) vedono quello che voi fate finta di non vedere e capiscono quel che voi non capite per via delle fette di prosciutto che vi siete messi davanti agli occhi in nome di falsi alibi come la razionalizzazione e la competitività.
Orley nasce due anni fa come marchio di maglieria e fin da subito, dopo un minimo di ricerca, arriva ad una conclusione semplice quanto evidente: «certi tipi di lavorazioni non puoi proprio pensare di farle al di fuori del vostro Paese», spiegano. Il nostro Paese, per chi non se ne fosse accorto, è l’Italia. Non la Cina, né la Romania, o il Bangladesh, o il Vietnam o quella che sarà la prossima frontiera del low-cost e dei lavoratori sottopagati, non sindacalizzati, da sfruttare e consumare a piacimento finché morte non sopraggiunga—magari un popolo di mutanti che vivono solo sottoterra, tipo Futurama.
Quella presentata a Firenze per Orley è la prima vera collezione completa, dopo piccole capsule collection di sola maglieria. Quale che sia il prodotto, ad ogni modo, si parte sempre dai tessuti e solo dopo si inizia a lavorare sulle linee e sui colori, sempre stando ben attenti a restare fedeli alla missione: svecchiare il classico, modernizzandone le forme ed utilizzando tinte accese. Questo vale per cardigan, polo, gilet e shorts come pure per cravatte (100% seta, ovviamente Made in Italy) e guanti (seta come sopra e pelle d’agnello, italiana pure quella).
Alla fin fine la filosofia aziendale è semplice e funziona come un’equazione: lo stile Orley inizia dalla qualità. La qualità, in quanto a tessuti e lavorazioni, inizia dall’Italia. E l’Italia, se non m’inganno, inizia dagli italiani. Ma visto come siamo messi perché non farla iniziare, di tanto in tanto, da qualche altra parte? Magari da chi sa valorizzarla meglio di noi.