Archivio Guerrini: l’anima più sincera del pop

Stefano mi manda un sms. Dice che mi verrà a prendere in stazione. Francesca, la mia compagna di viaggio, continua a chiedersi se non sia il caso di dirglielo prima di arrivare che non viaggio da solo ma che mi sono portato dietro lei. Preferisco fargli una sorpresa, «tanto ti conosce già».
Piove a dirotto. Nonostante il panorama monotono che scorre tra le gocce d’acqua fuori dal finestrino, i cinquanta minuti e rotti di viaggio da Bologna a Lugo di Romagna passano via rapidamente, persi tra pettegolezzi, discorsi sulla religione—Francesca (Santoro), oltre ad essere una collaboratrice saltuaria di Frizzifrizzi e soprattutto un’amica, è anche buddista, ed io mi sto togliendo l’etichetta di ateo per prendere definitivamente quella di fricchettone mistico—e dissertazioni su psicanalisti e problemi relazionali, per poi tornare agli pettegolezzi, da brave zdaure in trasferta quali siamo.

Stefano mi aspetta sul binario. Anzi ci aspetta, perché ormai ha visto Francesca. Nonostante la sorpresa non fa una piega. Sembra addirittura felice di avere due visitatori non paganti al posto di uno. La destinazione è l’Archivio Guerrini, metà museo in fieri, metà appartamento, 100% Stefano Guerrini, che da *guardo l’orologio* due anni mi propone di visitare il suo quartier generale.

Uno dei foulard della sua vastissima collezione al collo, un ombrello formato gigante che gentilmente tenta di barattare con il nostro, striminzito, sotto al quale ci bagniamo in due, Stefano ci accompagna a casa sua, in una via residenziale non lontano dalla stazione.
È lì che da più di vent’anni accumula oggetti, capi d’abbigliamento, inviti alle sfilate, poster, foto—ciaffi li chiamerebbe mia nonna, archeologia pop precisa Stefano—e riviste, soprattutto riviste, in ogni dove, disposte su più file; i nomi che hanno fatto (e i più fortunati ancora fanno) la storia dell’editoria di moda; una quantità di carta patinata che un ossessivo-compulsivo sognerebbe di ordinare e riordinare finché morte non sopraggiunga.

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Stefano abita in un appartamento all’interno di un piccolo condominio occupato da tutta la famiglia Guerrini, e si divide tra docenze, collaborazioni giornalistiche, blog e un buon numero di progetti online. Ma la sua attività mainstream è l’ultima che ti aspetteresti: fa il medico. Sostituto medico di famiglia, per la precisione.

Da quanto lo conosco il Guerrini? Chi me lo ha presentato? Me lo chiedo—ma non ci penso minimamente a rivelarglielo per evitare che mi dia per l’ennesima volta, a ragione, della bionda—mentre ci fa entrare e ci descrive con piglio da curatore museale «il corridoio cinematografico-slash-icone».

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C’è la Maria Antonietta della Coppola e c’è Lost in Traslation. E Marilyn, Audrey Hepburn… C’è pure Hugh Hefner. In un angolo, la zona Tarantino. E ancora: il Rat Pack, Mia Farrow, Sinatra, ancora Marilyn, Silvana Mangano in Gruppo di famiglia in un interno di Visconti.
Poi ci sono le S. Di Stefano. Che ovviamente apprezzo, essendo un SS discendente di un SS e genitore di un’altra piccola SS, nonché nipote e cugino di svariati SS.
Come mi giro continuano a spuntare S, giganti e minuscole.

Al muro è appesa una Corona. «È in ceramica di Faenza» mi spiega, «Stefano deriva dal greco Stéphanos che significa appunto corona».

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Entriamo in cucina. Una cucina che ha un nomignolo: l’acquario, per via delle pareti di due tonalità di azzurro.
«La cucina è la zona delle illustrazioni-barra-altèrnative» dice Stefano, che ama verbalizzare la punteggiatura (barra, slash, punto, triplo punto esclamativo) e non lesina mai quando c’è da aggiungere qualche super- davanti a una parola per rafforzarne il concetto (super-pop, super-wow, super-impegnato).

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Sui muri dell’acquario diverse piccole opere realizzate perlopiù da giovani artisti italiani, alcune su commissione, alcune ricevute in regalo, molte che ritraggono il Guerrini stesso (nota per i nostri lettori illustratori: questo pezzo vuole essere solo un profilo parziale di quel complesso personaggio che è Stefano, ma gli elementi per fargli una sorpresa ce li avete tutti; lui di sicuro non si offende se gli mandate un ritratto).

Sulla parete, da dietro una nicchia, spunta Paperino che a quanto pare è stato messo lì apposta per apparire a sorpresa, il che lo rende, di fatto, il guardiano della casa.

Io e la mia aiutante passiamo in rassegna tutto. Ci sono ovunque inviti per le sfilate, pass, cadeau che fino a qualche anno fa i marchi di moda erano felici di regalare durante le presentazioni o gli open day dedicati alla stampa. Poi è arrivata la crisi. E i cadeau sono diventati semplici cartelle stampa, le cartelle stampa delle chiavette usb e infine le chiavette usb più pratiche ed economiche mail col materiale da scaricare. Ma le mail non fanno festa quanto gli oggettini inutili e, soprattutto, non puoi usarle come soprammobile o decorazione.

Archivio Guerrini
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Francesca quasi salta quando si accorge che proprio accanto a lei, appeso a un muro, c’è un grumo di nastri colorati intrecciati gli uni agli altri, dai quali pendono decine di pass.
«L’albero degli accrediti!» esclama.

Il grumo, a studiarlo bene, è un catalogo di materiali, font e stili grafici, ciascuno indissolubilmente legato alla sua primavera/estate o al suo autunno/inverno: gli anni che passano li vedi dalle card del Pitti che si accumulano.

So già che se un giorno Stefano impazzirà lo vedremo andare in giro col suo intreccio di pass al collo, un Mr. T con l’accesso universale a tutte le fiere e le sfilate.

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Entriamo nello studio, dove pile di riviste si alternano a scaffali, muri, totem di riviste.

Un arredatore consiglierebbe di buttar giù i muri, levare scrivania, librerie, sedie, armadietti, persino le finestre, e sostituire tutto con quei “mattoni” dalle costole più o meno variopinte con su scritto Vogue, Love, Interview.

Stefano è un collezionista ed ha una memoria degna di un catalogatore. Ricorda le date, gli eventi, i nomi, perfino i pr e gli uffici stampa, in che anno lavoravano per quale marchio, a quale agenzia è passato ora quel pr, che collezione è stata presentata in quale stagione e in quale location.

Mentre la mia compagna di viaggio entra in un loop di meraviglioso!, nooooooo, e questo? Non ci posso credere!, Stefano inizia a raccontare, indicare, spiegare, citare, stimolato da tutta quella montagna di passato che negli anni si è appiccicata ad ogni centimetro quadro di quella stanza.

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Vogue America lo colleziona dal ’90. Vogue Italia e Vanity Fair li compra meno di frequente.
Poi ci sono Love, Jane, Interview, Acne Paper—«che è “molto ispirato”, per usare un eufemismo, all’Interview di Warhol» dice Stefano. E poi Fantastic Man, The Gentlewoman, con la sua splendida copertina con Angela Lansbury/Jessica Fletcher fotografata da Terry Richardson.

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Come ti guardi intorno, in quella stanza, trovi qualcosa.
C’è l’angolo dei thermos: Campbell Soup, Coca-Cola e dietro ce n’è uno di Vivienne Westwood. Chi lo conosce sa che Guerrini ha un feticismo piuttosto spinto nei confronti del colosso di Atlanta. L’ho visto più spesso con una bottiglia di Coca in mano che con una d’acqua. E anche quando si butta su quest’ultima, vuole solo le bollicine.

Le/gli assistenti che ha avuto di volta in volta negli anni possono testimoniare che portare una bottiglietta di naturale a Stefano equivale a innervosirlo all’istante.
«Bevo solo cose frizzanti, è vero» confessa, «l’acqua naturale mi sembra sia fatta di niente».

C’è una foto con Linda Evangelista.
«La scattai la prima volta che la incontrai. Nelle vesti di fan sfegatato. Tempo dopo, a una sfilata, gliela feci autografare».

Archivio Guerrini
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Ci sono le cornici press-fotografi-buyers, che da sole sono un racconto minimalista ma molto dettagliato del mondo della moda. Almeno prima del fenomeno blogger.
«Sono i foglietti che trovi sopra ai posti riservati ai lati delle passerelle. Li fregai a una sfilata e li incorniciai».

E ancora: le copertine storiche di Fausto Papetti degli anni ’70, porno d’autore. Un cuore infilzato da una serie di siringhe, opera di Giacomo Gallina, che viene da una mostra curata da Stefano insieme a Michele Pollini a Gambettola qualche anno fa.

Archivio Guerrini
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Ci sediamo tutti. La scrivania di Stefano è piena di libri e giornali e inviti e cataloghi. Altri ciaffi. Altra archeologia pop, già divenuta tale o in via di storicizzazione.

Di fronte alla scrivania una parete piena di immagini: il suo wall ispirativo. Quando viene qua Stefano si porta il suo pc e guarda il muro, dove ha i suoi riferimenti: Warhol, Madonna, Versace, le super-models, Interview, Marc Jacobs, Avedon… In pratica il suo background. Stefano viene da lì, da quel muro.

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Iniziamo l’intervista vera e propria. Più una chiacchierata, in effetti.

Simone: hai collaborato per tutta una serie di riviste di moda. Hai un blog da quasi dieci anni, un magazine online che parla di moda, più altre collaborazioni in rete. Fai lo stylist. Sei, come ti definisci tu stesso, un archeologo pop. E come se non bastasse insegni anche allo Ied di Milano. Da dove viene, dunque, Stefano Guerrini?

Stefano: ero un ragazzino molto solo. Qui attorno c’erano tutte bambine. Con l’unico altro bambino qua vicino caratterialmente non ci pigliavamo. Lui andava a uccidere le rane e io già a quell’epoca non mi riconoscevo in questo genere di cose.
Quando sei un bambino solo che fai? Ti piazzi davanti alla televisione. Le estati, soprattutto, le passavo di fronte allo schermo. Su Rai Tre, all’epoca, di pomeriggio davano molti film vecchi. Musical, drammoni anni ’30. Ma il mio feticcio era una serie di film che in Italia si chiamavano Nick e Nora, giallo e rosa, dove marito e moglie—lui era William Powell, lei Myrna Loi—risolvevano i gialli. Il primo film della serie si chiamava The thin man, in Italiano L’uomo ombra. Myrna Loi in ogni scena aveva un vestito diverso. Per farti un esempio, vedevi loro due in casa, la sera, dopo aver risolto il caso, lui in vestaglia con il brandy in mano, pantofole meravigliose, lei elegantissima.

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Simone: il maschio base queste cose di sicuro non le notava.

Stefano: io ho una passione per gialli e serial killer quindi le storie di Nick e Nora mi appassionavano. E poi erano super-glamour, super-stylish.
Quindi sono cresciuto con l’estetica degli anni d’oro di Hollywood per poi gettarmi a capofitto, durante l’adolescenza, negli anni’80 quindi Madonna, Duran Duran, Boy George, George Michael, Spandau Ballet, artisti che fecero dell’estetica un punto di riferimento. Abiti Anthony Price, cene da Warhol…
Ero adolescente verso la fine dell’era new romantic e l’inizio della british invasion successiva. Tutto questo mondo, però, me lo guardavo da lontano, da Lugo.
In classe, al liceo, ero l’unico che sapeva chi era Warhol. Non c’era internet. Non c’erano i link. Per informarti dovevi arrangiarti, cercare.
In un giornaletto di musica lessi un articolo in cui si parlava di John Taylor e Nick Rhodes dei Duran e del fatto che fossero stati appunto a cena da Warhol.

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Simone: mi chiedo infatti come facessimo a sapere le cose, senza internet. Anche io da ragazzino ero una piccola enciclopedia, non di moda e di estetica ma di scienze e invenzioni e computer.

Stefano: avevamo le antenne ben pronte a captare i segnali. Mi ricordo ad esempio di Disco Ring, la trasmissione musicale. Bastava che citassero un nome e a me veniva subito l’impulso di sapere, approfondire, quindi registravo mentalmente quel nome e quando lo ritrovavo su un giornale o in un’altra trasmissione semplicemente incrociavo i dati.

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Simone: ci si appassionava davvero a scoprire le cose. Anche e soprattutto perché era faticoso. Credi che oggi sia ancora così?

Stefano: forse, vista la facilità di accesso alle informazioni, manca quella passione che ti prende quando sai che se non ti metti d’impegno non arrivi da nessuna parte. Però, visto proprio l’eccesso di informazioni a cui siamo sottoposti ora, siamo diventati più bravi a filtrare.
Tuttavia sottolineo il forse, perché non è mia intenzione fare il solito processo alle nuove generazioni.

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Francesca: secondo me era una questione di ambiente. Mi ricordo che al sabato pomeriggio, quando c’erano i Duran Duran, andavo allo Studio Esse, una sorta di mega-cartoleria che c’era all’epoca a Bologna, a comperare le foto, stampate su carta fotografica lucida, delle band.

Stefano: io venivo spesso a Bologna. Soprattutto a comprare i biglietti per i concerti. Il primo fu quello degli Spandau Ballet, che inaugurò la mia “esplosione” adolescenziale.

Francesca: questo genere di cose erano una scelta, dovevi andartele a cercare, non eri passivo.

Stefano: credo tu abbia ragione. E credo anche che dopotutto seguissimo lo stesso concetto per il quale funziona il link.
Madonna era amica di Keith Haring? E tu andavi a cercarti notizie su Keith Haring. Arrivavi in libreria, cercavi e trovavi la biografia di Keith Haring. Lì trovavi altri nomi? E via così.
Warhol è morto nell’87, quando facevo la Quinta Liceo. L’anno dopo uscirono i suoi diari, li presi e quando lessi la parte in cui si parlava della cena con Nick Rhodes e John Taylor io lo sapevo già da tre anni perché quel link l’avevo già seguito, l’avevo letto su riviste come Tuttifrutti o Tutto musica e spettacolo.

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Simone: Tuttifrutti non me lo ricordo ma Tutto sì. Lo comprava mia zia e poi riempiva la camera dei poster dei Duran. Facevo le elementari, lei le superiori, e di tanto in tanto al pomeriggio andavo da lei a studiare.

Stefano: su Tutto uscì la mia prima lettera. Scrissi ad una rubrichetta che teneva, da ragazzo, Gianmarco Cattaneo, che oggi ha un’agenzia di pr a Milano. In questa rubrica lui andava a caccia dei Duran Duran portandosi sempre appresso la sua Smemoranda. Io mi riconoscevo totalmente in lui.

Simone: e che gli hai scritto?

Stefano: ho scritto lamentandomi del fatto che le cose di cui parlava lui avessero dei costi troppo alti per un adolescente dell’epoca. Lui scriveva di abiti di marchi importanti ed io me la prendevo proprio col fatto che i prezzi, per noi “gente del mondo reale” fossero improponibili.
Ora lavoriamo tutti e due nella moda e questo lo trovo divertente.

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Simone: e come sei arrivato dalla musica alla moda?

Stefano: le mie amichette dell’epoca iniziarono a riempirmi la testa col fatto che i Duran Duran—dei quali erano fanatiche come me, come tutti i ragazzini e soprattutto le ragazzine dell’epoca—si mettessero con le modelle. E da lì ecco altri link: Renée Simonsen, Sotto il vestito niente, via Montenapoleone e poi Yasmin Le Bon, la moglie di Simon, che mi aprì un mondo. Cominciai a guardarmi le passerelle, le modelle. Arrivò l’epoca delle super-model e mi innamorai totalmente di Linda Evangelista, che diventò il mio ideale femminile. Poi uscì il video di George Michael Freedom! ’90. Andavo già all’università. Ricordo che la prima volta che lo vidi piansi. Quello era il mio mondo. Quello che volevo io.
Quel video mi cambiò la vita.

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Simone: all’epoca quindi avevi appena iniziato a studiare medicina.

Stefano: sì, un percorso totalmente diverso da quello che avrei voluto fare, soprattutto quando scoprii che volevo vivere nel mondo che vedevo sulle riviste, in tv e nei video. Ma per una serie di motivi, soprattutto famigliari, portai a termine gli studi.
Però appena potevo scappavo. Andavo a Milano, provavo ad entrare alle sfilate.

Simone: e quando tutto questo è diventato una professione?

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Stefano: in quel periodo, iniziando a frequentare le sfilate, conobbi un ragazzo sardo che faceva—e fa tuttora—il fotografo. Quando ci incontravamo davamo insieme la caccia alle modelle. Poi lui mi chiese di aiutarlo a distanza. Facevamo queste telefonate fiume durante le quali ci confrontavamo su quello che faceva lui, che allora era alle prime armi, si era appena trasferito a Milano e lavorava per giornali come Trend / Discotec. Di fatto quegli scambi di idee sullo styling furono i miei primi vomiti di creatività.

Simone: immagino fosse tutt’altro che semplice parlare di un servizio fotografico e dello styling a distanza, senza nemmeno poter vedere le foto. O avere riferimenti visivi. Non c’era ancora il web, giusto?

Stefano: per questo erano telefonate lunghissime! A parole riuscivamo ad evocare dei mondi e a parlare dei nostri ideali estetici cercando di raccontarli.

Francesca: già all’epoca quindi iniziasti a comprare riviste di moda?

Stefano: sì ma di quel periodo molte non ne ho più. Come ad esempio Cento Cose, un giornale meraviglioso.
Ma visto che andavo già accumulando pile di riviste, sotto la pressione dei miei genitori che insistevano col loro «butta, butta!», le gettai via.

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Francesca: un peccato perché Cento Cose era davvero avanti per l’epoca.

Stefano: il concetto di new romantic lo imparai lì. E parlava anche dei club kids newyorkesi, la stessa scena raccontata da Lee Tulloch in Favolose nullità. Ad ogni modo il primo Cento Cose fu un gran bell’esperimento editoriale, a differenza di Cento Cose Energy che arrivo dopo e che non era assolutamente allo stesso livello.

Simone: secondo te oggi c’è qualcosa di simile, nel panorama editoriale?

Stefano: non credo. Oggi questo tipo di fermenti culturali ti arrivano in diretta e lo fanno sul web, non sulle riviste.
All’epoca non c’era la… diretta. E ti informavi su riviste come Cento Cose, appunto, o su Per lui, il maschile giovanile di Condé Nast, che a differenza del suo omologo femminile Lei era un ottimo prodotto. Pensa che pubblicava foto di nudi maschili. Oggi non si può più.
Poi c’era Boy Music, che come suggerisce il nome era fondamentalmente orientato sulla musica, ma dove c’era una rubrica sullo stile curata da una corrispondente da Londra (così dicevano) che faceva schizzi degli abiti, dello stile street… Ogni mese aspettavo con impazienza che uscisse la rivista proprio per quella rubrica lì.

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Simone: torniamo ai tuoi inizi come giornalista.

Stefano: mentre ero ancora all’università iniziai a scrivere di musica e di stile per un giornale locale e tramite quel giornale locale, grazie agli agganci del direttore, andai per la prima volta in maniera ufficiale ad una sfilata. Anzi due. Di Exté e di D&G. Per la prima volta quindi avevo un invito e non ero un imbucato.

Simone: immagino l’emozione…

Stefano: tantissima.
Poi finii finalmente l’università. Anche se nel frattempo avevo iniziato a mandare a Dolce & Gabbana le cose che facevo: schizzi, ritagli, collage. Domenico Dolce mi telefonò, mi chiese chi ero, mi ringraziò, mi disse di continuare a mandare i miei lavori e di andarli a trovare quando capitavo a Milano.
Ma ero stupido, timido. Ho un’insicurezza cronica, da sempre, che mi porta a non fare cose che invece vorrei fare.

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Stefano: Dolce & Gabbana li incontrai due volte nei backstage di Complice, marchio che disegnavano all’epoca, ma non ebbi il coraggio di farmi avanti.
Di loro comunque ho un ottimo ricordo. Sono stati molto carini. Una volta addirittura mandai una serie di foto che scattò una mia carissima amica di allora e di oggi. La modella era un’altra nostra amica ed io feci lo styling.
Dolce e Gabbana—o chi per loro—scrissero una lettera che diceva «Stefano questa volta ci hai proprio stupito. Continua! Chissà che un giorno questa passione non diventi una professione».

Simone: quindi è grazie a loro se sei qui.

Stefano: sì, lo scrissi pure in un articolo in occasione del loro anniversario. Non so se avrò mai l’occasione di parlarci faccia a faccia visto che ora sono delle superstar, ma vorrei comunque ringraziarli.
Comunque, almeno in parte, il loro augurio è diventato realtà, visto che ora questa è la mia professione.

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Francesca: all’epoca stavi a Bologna?

Stefano: sono stato per un po’ a Bologna ma poi iniziai a fare avanti e indietro da Lugo.

Francesca: immagino che per uno con le tue passioni Lugo andasse un po’ stretta…

Stefano: spesso mi dicono che non dimostro i miei anni e, a parte l’obesità che come dico sempre è un filler naturale, il fatto è che per 9 anni sono stato come ibernato, in freezer.
In quei nove anni facevo casa-università. A casa evitavo di studiare in cucina perché lì c’era la tv e in quel periodo avevo la fissa delle soap-opera: ne guardavo a decine, adoravo gli intrighi, i drammi, ed ero capace di passare pomeriggi interi davanti alla tv.
Quindi andavo in camera dei miei e mi mettevo sul loro lettone con un’asse di legno sopra alle gambe incrociate ed il libro su cui dovevo studiare. Il problema è che poi oltre al libro mi portavo pure Vogue Italia e ogni due pagine di studio mi mettevo a sfogliare la rivista.
È per questo che mi sono laureato in medicina a 28 anni, quindi due anni e mezzo fuoricorso.

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Simone: nel frattempo continuavi a scrivere?

Stefano: no, smisi per qualche anno. Ma il 1997, anno della mia laurea, fu un anno catartico. Feci il servizio civile e conobbi delle persone—tra cui quella che diventò una mia carissima amica, Daniela—che mi consigliarono di riprendere ad occuparmi di moda. Dicevano che quando parlavo di stile, di modelle, di abiti, mi si illuminavano gli occhi.
Così ripresi di nuovo a lavorare per il giornale locale e mandai delle richieste per partecipare alle sfilate.
Mi invitarono a diverse presentazioni tra cui Fendi—non so come, visto che di solito sono molto rigidi. Poi una cosa tira l’altra: c’era un mio amico che faceva il politecnico a Torino e sapeva che ero un appassionato di riviste. Mi parlò di una che facevano proprio lì al politecnico e me ne mandò una copia. La rivista si chiamava Label. Era più che altro una fanzine.

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Simone: e iniziasti a collaborare con loro?

Stefano: ricordo una vigilia di Natale. Io intento a scrivere una lettera alla redazione di Label, dove dicevo che avevo visto la loro rivista e che mi piaceva moltissimo ma che c’era un solo articolo di moda e quell’unico articolo era pessimo e che dunque probabilmente avevano bisogno di me.
La collaborazione iniziò così. Pian piano diventai il loro fashion director. Si trattava comunque di un trimestrale, quindi mi impegnava poco. Nel frattempo, in quanto a medicina, iniziai a fare la specializzazione.
Poi mi capitò di intervistare Antonio Mancinelli, che all’epoca era capo-redattore di Donna. A lui piacque come avevo scritto l’intervista e mi chiese di collaborare con Donna, dove rimasi per un anno.

Simone: periodo movimentato.

Stefano: sul finire della collaborazione con Label arrivò la proposta di Made. Era il 2006. Lì, dopo un anno, la fashion director se ne andò e chiesero a me di prendere il suo posto.
Poi andando alle sfilate e agli eventi ci si fa conoscere, la gente di ricorda di te ed è così che nascono le collaborazioni. Scrissi qualcosa per L’uomo Vogue, per Velvet, MFF.
Non sto mai fermo. Mi entusiasmo facilmente. Che in questo ambiente è un pro ma anche un contro, perché poi capita di non esser presi sul serio.

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Simone: la dura vita del contributor.

Stefano: se sei esterno e c’è in redazione qualcuno che può fare qualcosa al posto tuo, ovviamente il ruolo lo prende quello che è già in redazione. Alcune collaborazioni finiscono per questo. Altre finiscono ma non saprai mai il perché. Altre volte ancora finiscono perché meglio andarsene che prendere a pugni quelli con cui collabori.

Simone: e quando Made ha chiuso?

Stefano: ho deciso di puntare proprio su questa mia attitudine a fare 50000 cose e… mi sono inventato 50000 cose.
Già ai tempi di Made avevo aperto il mio blog, che ora è sul portale di GQ: lepilloledistefano.gqitalia.it.
Poi ho lanciato, insieme ad Andrea Ferrato, webelieveinstyle, un sito di approfondimento per tutto ciò che riguarda la moda e lo stile. È un progetto decisamente più difficile perché, non essendoci ragazze bionde che si fanno le foto, è dura farlo diventare una fonte di profitto. Abbiamo fatto un restyling lo scorso settembre che ci ha portato ad avere più visite, abbiamo fatto qualche progetto per dei marchi ma l’intento è di farlo crescere ancora in questo 2013.

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Simone: quand’è che hai deciso di puntare sul web? Che hai capito che oltre alla carta potevi vivere anche nella dimensione virtuale.

Stefano: anni fa, quando ancora ero a Label e collaboravo con Donna, frustrato dal fatto di fare delle proposte—non ricordo nello specifico a chi, anzi ora che ci penso me lo ricordo, ma passiamo oltre…—frustrato quindi di proporre ma di non ricevere un qualche riscontro, creai una newsletter, che intitolai Le pillole di Stefano e che iniziai a spedire ai miei amici più cari.
Una delle mie più care amiche mi convinse ad andare avanti e ne scrissi—senza impegno, quando trovavo il tempo—dodici/tredici, finendo con l’avere circa 200 persone iscritte. Anche se a dire il vero non è che fossero proprio “pillole”. Si trattava di mail lunghe pagine e pagine.

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Simone: che anno era?

Stefano: non ricordo con esattezza. Dieci anni fa o qualcosa di più.
Poi provai a far diventare la newsletter un sito ma con risultati disastrosi. Quindi, su consiglio della solita amica storica, mi informai sui blog e decisi di provare quel tipo di piattaforma. Entrai in blogspot e, mentre stavo al telefono con lei, aprii la prima versione.
All’epoca feci un colloquio con Margherita Pogliani, l’allora direttore di Menstyle ed oggi di Style.it, per una posizione che però non potevo sostenere perché richiedeva la mia presenza a Milano tutta la settimana, cosa che mi era impossibile fare. Però vide il mio blog…

Stefano si interrompe improvvisamente. Si gira con sguardo minaccioso verso la mia compagna di viaggio e, ridendo, dice «pur nel mio deliro io so dov’è ogni cosa e quella copia di Herself che avevi in mano non andava messa sulla colonnina di Vogue ma in quella di fianco!». Francesca, che quando la becchi in fallo assume sguardo, voce e gestualità di una bambina di 6 anni colta sul fatto, si dice certa di aver sbagliato anche altre “rimesse a posto” e i successivi due minuti li passiamo tutti a risistemare.

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Stefano: …dicevo che lei vide il mio blog, le piacque e mi propose di farlo entrare nel sito di Menstyle, tra i “blog d’eccellenza”, così li chiamava lei.
Poi Menstyle diventò GQ ed il blog passò automaticamente lì. Inizialmente lo vedevi in homepage. Poi hanno deciso che in homepage doveva andarci qualcun altro. Ad ogni modo fa buone visite e quando non parlo di prodotto ma mi metto in gioco io—mettendoci la faccia—fa molti like.

Simone: ultimamente hai inziato a collaborare anche con Pitti Discovery e con Maglifico.

Stefano: per Maglifico, che è un progetto editoriale online dedicato interamente alla lana, tengo una rubrica che si chiama Il maglione di… dove faccio una manciata di domande ad alcuni personaggi, perlopiù giornalisti, sui loro maglioni preferiti e un pezzo—ovviamente pop—intitolato Sexy and you know it, in cui parlo della maglia come modello sessuale, a partire da Marilyn e dal maglioncino infeltrito di Quando la moglie è in vacanza per arrivare a Versace, Bikkenbergs…

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Iniziamo a parlare di copia-incolla, di amici di facebook, di amici comuni e di articoli che escono contemporaneamente, identici, su tutta una serie di blog. Parliamo di profili facebook, di gente che muore e di testamento digitale. Poi passiamo in camera da letto, dove tra una carta da parati originale anni ’70 messa dalla precedente proprietaria, negli armadi si cela la seconda parte dell’Archivio Guerrini, quella dedicata ad abbigliamento ed accessori, soprattutto vintage, che Stefano utilizza per gli shooting.

Archivio Guerrini
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Voci di corridoio dicono che nel suo armadio ci sia una Vuitton tarocca. Ma non esce fuori. In compenso c’è una giacca à la Brokeback Mountain, il vecchio chiodo di Stefano (che col chiodo non ce l’ho mai visto né riesco ad immaginarlo, per quanto possa sforzarmi), una vecchia gonna Dolce & Gabbana, calzini con Kermit la rana che però Stefano si vergogna ad indossare, t-shirt («in cui non entro più»), Gaultier fine anni ’80, Dennis Simacev… Cose e nomi. Nomi e cose.

Il registratore registra risate, sghignazzate, Stefano sa prendersi molto sul serio come pure, al contrario, per nulla. Sottolinea almeno venti volte il fatto di essere obeso.

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Nel frattempo la mia assistente/compagna di viaggio si fa seria e rimugina. Sta arrivando un domandone.
Francesca: tra tutte le tue identità—fashion writer, stylist, archeologo pop, docente—ce n’è una dominante?
Quale sceglieresti se ne dovessi scegliere solo una?

Stefano: non lo so. Non riesco a dirtelo. È come chiedere ad uno schizofrenico dalle personalità multiple quale di esse vorrebbe far morire.

Francesca: e come te lo spieghi questo tuo attaccamento, questo feticismo per il passato?

Stefano: sono una persona estremamente malinconica ma ho anche una gran curiosità e voglia di nuovo. Però credo anche che la rincorsa al nuovo che stiamo vivendo in questi anni sia allucinante. Perché ci si può buttare in avanti solo se conosci il passato, altrimenti non ha senso. Anche politicamente.
Sono da sempre un acceso sostenitore della memoria, del recupero, del riuso.

Archivio Guerrini
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Francesca: quello che mi colpisce è che a te piacciono le cose. Gli oggetti. Di tanti tipi. Dai ad essi un valore affettivo.

Stefano: sì ma in realtà io mi affeziono a tutto e a tutti. Pure ai miei studenti, compresi quelli che all’inizio fanno gli antipatici. E allora cerco di scoprire perché fanno gli antipatici, provo a lavorarci su e nel frattempo mi affeziono.

Nel resto della casa le collezioni sono ovunque. Pietre, sassi, bottigliette, ceramiche (soprattutto di Lidia Carlini, una sua amica che—momento Carramba—conosce anche Francesca), illustrazioni, S, gioielli handmade (quasi tutti di Michele Pollini). E ovviamente ancora riviste. Anche in bagno. Dove scopriamo che Stefano era pure un appassionato di serie tv per teenager.

Stefano: Buffy ed Angel su tutte.

Simone: niente Dawson’s Creek? Mi caschi proprio qua? Senza Dawson’s Creek dubito ci sarebbero stati gli hipster…

Fuori non ha ancora smesso di piovere. Mentre io e Francesca ce ne andiamo mi rendo conto solo in quel momento di essermi dato la proverbiale zappa sui piedi da solo. Forse sarebbe stato meglio un mondo senza Dawson’s Creek. Ma non ci voglio pensare.
Come pure non voglio pensare a un mondo—soprattutto quello della moda—senza Guerrini. Che di certo sarebbe meno pop, meno interessante, meno vero, meno super.

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