Issues | The Gourmand

Ai margini di un’intervista che Martina Liverani mi ha fatto prima delle feste e poi uscita qualche giorno fa su Dissapore ho detto – e pur se il pezzo, a cui Martina ha dato un taglio ironico/provocatorio, non lo riporta si intuisce comunque tra le righe – che i magazine sul cibo sono decisamente troppi. Non che servisse un genio per accorgersene: parallelamente all’ascesa di chef e critici al rango di superstar (dal web alla tv, dall’indie al nazional-popolare) nuove riviste di e per i cosiddetti foodies hanno iniziato a nascere a ritmi da allevamento intensivo di conigli transgenici.
Ma si tratta solo della punta – di nicchia, vera o addobbata come tale – di un fenomeno globale (o per lo meno occidentale) che ha descritto benissimo Camilla Baresani sul numero di dicembre di IL in un articolo dall’evocativo titolo di Noi siamo un popolo di spadellatori.

«Il passaggio dalla golosità di massa al gastrofighettismo diffuso» scrive la Baresani «ha avuto snodi ben identificabili. C’è stato un ’68 del cibo ed è databile alla fine degli edonistici anni 80» che poi sarebbero quelli delle insalatone e del carpaccio con rucola e scaglie di grana. Alla fine degli anni 80 arriva la democratizzazione, grazie al Gambero Rosso e Slow Food che «aggiungono al tema cibo elementi di carattere culturale e una spruzzata di santonismo moderno» e divulgano il cibo raffinato dei ricchi ai piccolo-borghesi anche se «il completamento della democratizzazione del cibo» continua la Baresani «è arrivato da internet, dall’esplosione dei blog e dei siti di recensioni, dalla fotografia digitale e dai siti di condivisione di immagini. L’avventore-blogger, l’avventore-recensore, l’avventore-fotografo, tutto in una sola persona».

Oggi ci ritroviamo i social network che vomitano a flusso continuo foto di piatti e recensioni fai-da-te, le tv che propongono ricette in tutte le salse e chef più o meno esaltati che scambiano sé stessi per dei maître (à penser) o dei filosofi in grado di illuminare gli accidentati percorsi di vita di intere generazioni. La cosa è sfuggita di mano un po’ a tutti, insomma. E quando la confusione regna sovrana ed appiattisce ogni singola voce – pure le più interessanti – in un continuo e fastidioso rumore di fondo si rischia di perdere il senso dell’orientamento e dare tutto per buono o, peggio, per inutile e sbagliato, magari perdendosi delle vere occasioni per scoprire realtà veramente valide come ce ne sono molte nel mondo dell’editoria cultural-gastronomica.

Una di queste è The Gourmand, nuova rivista inglese che dopo un numero zero uscito l’estate scorsa ha finalmente pubblicato il primo numero ufficiale, confermando le aspettative di quanti avevano sfogliato con curiosità il “prototipo”.
Fondato da David Lane di Inventory Studio e Marina Tweed, organizzatrice di eventi, il magazine parla principalmente di cultura e di arte e lo fa appunto attraverso il cibo. Bando ai grandi chef, bando alle ricette (ovvero ci sono ma come “optional”), spazio invece ad artisti – fantastici i “ritratti” delle conversazioni ascoltate al ristorante da parte dell’illustratore Paul Davies – interviste, servizi fotografici, moda ed approfondimenti. Anche solo dalle preview degli articoli, che si possono trovare sul sito, si intuisce quanto The Gourmand (che in Italia non viene ancora distribuito ma si può acquistare online) non sia l’ennesima, solita rivista da gastrofighetti (per citare ancora la Baresani).

co-fondatore e direttore
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